Le mille e una voce prima e dopo l’8 marzo

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Redazione BookToBook
08 Mar 2022

Sono mille e una voce che ogni giorno dell’anno dentro e fuori casa, solitarie o collettive, flebili o tuonanti ma comunque instancabili, difendono i diritti civili, la libertà, la legittimità di esistere contro ogni discriminazione di genere, di razza, di religione su questa Terra e che risuonano più forti nella giornata internazionale dei diritti delle donne, una giornata che unisce idealmente tutte le battaglie combattute da quanti hanno a cuore il progresso dell’umanità. I libri fanno la propria parte, sempre e dovunque, l’8 marzo e il resto dei giorni; chi li ama lo sa, chi frequenta biblioteche e librerie li legge ogni volta che può, al di là di date e celebrazioni ufficiali.

8 marzo, la fuga verso la libertà

L’8 marzo di quest’anno arriva in libreria, in contemporanea mondiale e in Italia con Rizzoli, Ribelle. La mia fuga dall’Arabia Saudita verso la libertà. È la voce coraggiosa, ferita, oltraggiata ma oggi più forte che mai di Rahaf Mohammed, ventiduenne che tutto il mondo ha conosciuto nei primi giorni del gennaio del 2019 quando, a diciotto anni, è fuggita verso la libertà, si è liberata dal giogo della propria famiglia e del paese d’origine, l’Arabia Saudita, dalla violenza e dalla negazione dei più basilari diritti civili perpetrati, ieri come oggi in molte regioni del pianeta, nel nome di una religione e di una società che non riconoscono dignità alle donne.
Coautrice del libro è Sally Armstrong, pluripremiata giornalista e attivista per i diritti umani, vincitrice per quattro volte dell’Amnesty International Canada Media Award. Per prima ha descritto al mondo la condizione delle donne in Afghanistan, e ha realizzato svariati reportage di guerra durante i conflitti in Bosnia, Somalia, Ruanda, Iraq, Sud Sudan, Giordania e Israele.

Ribelle

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Ribelle è un libro-memoir in cui Rahaf Mohammed racconta per la prima volta, a tre anni di distanza dalla pericolosa fuga che l’ha vista al centro di un clamoroso caso internazionale, la storia della sua vita segregata. Un documento unico e inedito, che testimonia le incredibili e inaccettabili violazioni alla persona, in quanto essere umano, che Rahaf ha subìto durante l’infanzia e l’adolescenza e che molte altre donne continuano a subire.
Figlia di un importante politico saudita, Rahaf è stata allevata secondo un’interpretazione dell’Islam tra le più oppressive, che nega ogni libertà al genere femminile. Già a nove anni fu costretta a indossare l’abaya, la tunica nera che copre tutto il corpo dalla testa in giù, e a dodici anni anche il niqab, il velo che avvolge la testa lasciando liberi solo gli occhi. Sottoposta alla guardanìa, il sistema repressivo che impone alle femmine il controllo totale delle loro vite da parte dei familiari maschi, Rahaf ha subito maltrattamenti e violenze fisiche e psicologiche continui. Finché non ha deciso di scappare. Grazie a una rete web segreta di profughe saudite che l’ha aiutata a mettere in atto il piano di fuga, tra gli ultimi giorni del dicembre del 2018 e i primi del gennaio 2019 Rahaf si è imbarcata su un volo in partenza dal Kuwait e diretto a Melbourne, in Australia, dove l’aspettava un’altra rifugiata saudita. Il piano viene però bloccato all’aeroporto di Bangkok il 5 gennaio, quando Rahaf viene intercettata dagli emissari del padre incaricati di ucciderla. Posta in isolamento in una camera d’albergo dell’aeroporto thailandese, in attesa del volo che l’avrebbe riportata in Kuwait contro la sua volontà, Rahaf riesce a collegarsi a internet e, da Twitter, lancia il suo grido d’aiuto, denunciando in tempo reale, tweet dopo tweet, cosa le sta succedendo e il pericolo di essere uccisa, richiamando così l’attenzione di tutto il mondo, dalle associazioni umanitarie fino all’Unhcr, l‘Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Oggi Rahaf vive in Canada, dove ha ottenuto asilo e da dove prosegue la sua lotta in difesa della libertà e dell’emancipazione delle donne.
«La mia storia somiglia a quella di moltissime ragazze e donne che nel mondo sono state vittime di ingiustizie e abusi e della negazione dei diritti che ogni donna merita di avere», scrive Rahaf Mohamed nella “Lettera alle mie sorelle che devono fuggire dalle vite che vivono”, che chiude il volume.

«Sono stata picchiata, minacciata, violentata da uno sconosciuto e, quando sono fuggita, la mia famiglia e il governo saudita mi hanno braccata come una criminale. Come molte altre ragazze rinchiuse nella gabbia dell’oppressione, ho sofferto di una depressione così grave da sentirmi morta dentro e volermi suicidare. Potevo guarire solo trovando un modo per vivere la vita che sentivo di meritare, la vita che sognavo per me. Mi sono lasciata tutto alle spalle, la famiglia che amavo e il mondo che conoscevo, perché ero convinta di meritare un’esistenza migliore di quella che gli altri mi obbligavano a condurre».

Casa dolce casa, la voce delle vittime

Era il 24 novembre 2012 quando andarono in scena per la prima volta, sul palcoscenico del Teatro Biondo di Palermo, i monologhi di Ferite a morte, il libro scritto da Serena Dandini – con la collaborazione ai testi e alle ricerche della ricercatrice del CNR di Maura Misiti – che uscì all’inizio del 2013 e che oggi, in occasione dell’8 marzo, torna in libreria in un’edizione aggiornata dal sottotitolo Dieci anni dopo.

«Mi sono chiesta: “E se le vittime potessero parlare?” (che Edgar Lee Masters mi perdoni…). A questo azzardo è ispirata la scrittura di Ferite a morte», spiegava allora, nella prima edizione, Serena Dandini; «monologhi che nascono dalla voce diretta delle vittime, donne assassinate proprio in quanto donne, per mano di uomini, dei loro uomini. Ho letto decine di storie vere e ho immaginato un paradiso popolato da queste donne e dalla loro energia vitale. Sono mogli, ex mogli, sorelle, figlie, fidanzate, ex fidanzate che non sono state ai patti, che sono uscite dal solco delle regole assegnate dalla società e questa disubbidienza è stata fatale».

Da quella prima serata i monologhi raccolti in Ferite a morte hanno fatto il giro del mondo e sono stati rappresentati da donne di estrazione, cultura e Paesi diversi, in teatri maestosi o piccolissimi, in spazi sociali e addirittura nel palazzo delle Nazioni Unite a New York.

Ferite a morte

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I testi erano nati sull’onda dell’indignazione e del dolore per l’omicidio di Carmela Petrucci – a cui è dedicato il volume -, studentessa liceale di diciassette anni morta accoltellata il 19 ottobre del 2012 mentre cercava di difendere la sorella dall’aggressione dell’ex fidanzato. «Le ragazze del centro antiviolenza le Onde di Palermo ci avevano chiesto di pensare a qualcosa per manifestare concretamente la nostra solidarietà alla famiglia di Carmela, una delle ultime vittime di quell’odioso fenomeno che ancora nessuno osava chiamare con il suo vero nome: femminicidio», scriveva allora Serena Dandini.

«Senza che noi ce ne accorgessimo, attraverso un passaparola di complicità e sorellanza», scrivono oggi Dandini e Misiti nell’introduzione alla nuova edizione,

«Ferite a morte si è trasformato nel tempo in un potente strumento di denuncia e in un mezzo efficace per aprire un dialogo con le istituzioni. Purtroppo – e sottolineiamo questo purtroppo – è diventato un classico. Non lo avremmo mai voluto, speravamo sinceramente che le cose cambiassero con più rapidità, ma siamo ancora qui a contare e – nonostante le buone leggi che sono state varate nel nostro Paese – i numeri sono sempre impressionanti».

La pandemia da Covid-19 ha accresciuto il rischio per le donne rinchiuse in casa per il lockdown, che ha costretto «molte vittime di violenza domestica a convivere con i loro aguzzini. Con la difficoltà a uscire di casa le denunce sono diminuite come le chiamate al salvifico numero 1522», che durante la pandemia ha attivato una app che permette alle donne minacciate di contattare attraverso una chat, senza il rischio di essere ascoltate, le operatrici del 1522. «Era necessario aggiornare questa nuova edizione di Ferite a morte con un monologo, Casa dolce casa», continuano le autrici, «che racconta proprio questa situazione paradossale e, tra le altre storie inedite che sono nate lavorando sul campo, abbiamo voluto anche aggiungere una voce maschile. È l’ultimo monologo del libro, vuol essere una speranza di cambiamento e un invito simbolico a tutti gli uomini a farsi carico insieme a noi di questo dramma che non è una cosa “da donne”, ma li riguarda in prima persona e soprattutto non è ineluttabile come un destino avverso bensì è solo un’eredità culturale che può e deve essere cambiata».

I segni lasciati dal patriarcato

Nel 2013, nello stesso anno in cui usciva Ferite a morte, Karen Ricci, italo-brasiliana, brand and project manager per la moda e il design, lanciava il suo progetto di attivismo digitale Cara, sei maschilista!, che oggi raccoglie una community di oltre cinquantamila persone e che è spiegato e illustrato nell’omonimo volume appena pubblicato da Fabbri Editori. “E se non accettassimo più gli stereotipi?” è la domanda che dal sottotitolo del libro risuona in tutte le pagine, proponendoci una riflessione globale e trasversale sulla società maschilista in cui ancora viviamo. Karen Ricci parte dall’osservazione di come ancora oggi il nostro lessico riproduce in modo automatico ma nient’affatto innocuo i pregiudizi di genere (da cui il titolo del progetto), per incrociarla con l’analisi dei principali dati sulla discriminazione di genere e sulle forme di violenza nei confronti delle donne. Uno fra tutti, per ricollegarci a Ferite a morte: secondo i dati Istat pubblicati il 5 febbraio del 2021, nota Karen Ricci, gli omicidi in ambito familiare o affettivo rappresentano l’83,8% quando le vittime sono donne e solo 27,9% quando le vittime sono uomini.

«Frasi come: “Tuo fratello può farlo perché è maschio”, “Siediti composta, sei una signorina”, “Sei pronta per la prova costume?” sono state la colonna sonora della nostra infanzia e dell’adolescenza», scrive Karen Ricci nell’introduzione al volume. «Nessuno ovviamente pensava alle implicazioni», che tuttavia agiscono ancora, erodendo lo spazio di libertà e dignità delle donne. Dall’amore romantico alla maternità dovuta, dalla libertà sessuale negata alla pressione estetica sul corpo femminile, Karen Ricci individua i segni lasciati dal patriarcato, invitandoci a una riflessione su quanto ancora resta da fare per un reale e concreto riconoscimento dell’uguaglianza di genere. «Abbiamo costruito la nostra identità e i nostri valori seguendo modelli di donne perennemente in competizione. Abbiamo imparato che noi, quelle buone e giuste, dovevamo guardarci le spalle dalle altre, quelle cattive», nota Ricci. «Oggi fortunatamente le storie per bambini stanno cambiando, ma pensate a Cenerentola e ad altre fiabe classiche: i personaggi femminili erano perlopiù ragazze destinate a una vita di sofferenza e miseria, che avevano un’unica possibilità di salvezza: essere scelte da Lui, quel grandissimo figo del principe azzurro.»

Fiabe per un mondo libero dagli stereotipi di genere

Diversi capitoli del libro sono dedicati al tema della maternità, al tabù di chi sceglie di non avere figli, alle “trappole” che si nascondono dietro l’esaltazione dell’amore materno, come dimostrano i dati sull’occupazione e la carriera delle donne sul mercato del lavoro. Di tutte le restrizioni imposte alle donne, sostiene Karen Ricci, quelle sulla sessualità sono le più pesanti, lo stigma della “poco di buono”. Perché, spiega, «trasgredire al manuale della brava donna ha delle conseguenze, il prezzo da pagare è l’emarginazione, l’umiliazione e in tanti casi anche la violenza fisica». Tra l’immaginario collettivo ai due opposti della santa e della puttana, «in questo nebuloso universo della vergogna, non abbiamo avuto l’opportunità di conoscere i nostri corpi, non abbiamo ottenuto la legittimazione del nostro piacere e abbiamo finto l’orgasmo, troppe volte».

Romanzi Mum Noir: una sfida a ciò che pensi di sapere sulla maternità

Il progetto Pussypedia

Le parole sono importanti perché veicolano informazioni, ancor più se riguardano la nostra salute e il nostro benessere, qualsiasi sia il genere e l’orientamento sessuale che il nostro corpo esprime. Rivolto alle persone “dotate di figa” che si affacciano alla sessualità e alla scoperta di sé, ma anche a chi vuole ancora apprendere e approfondire la conoscenza del proprio corpo e dei corpi altrui, Pussypedia, in libreria con Fabbri Editori, nasce dal progetto lanciato nel luglio del 2019 dalla scrittrice Zoe Mendelson e dall’illustratrice María Conejo, che hanno creato una piattaforma digitale di divulgazione scientifica bilingue, Pussypedia.net, per raccogliere e proporre informazioni vere, corrette, autorevoli e verificate, non sempre facilmente accessibili in rete del corpo e della sessualità.

Pussypedia: il libro manifesto per chi si affaccia alla sessualità

Il volume è suddiviso in sette parti e 32 capitoli, che in 540 pagine illustrate trattano i principali e differenti aspetti della sessualità: la prima parte è dedicata all’illustrazione delle parti anatomiche della figa (l’ano e il retto; il punto G; le tube uterine, le ovaie e l’utero; la vulva e la vagina), a cui segue la parte sugli ormoni e sul ciclo mestruale. Ci sono poi gli approfondimenti sul sesso, sulla masturbazione, sull’aborto e sulla contraccezione. Una sezione si sofferma sulle infezioni e sul sesso sicuro, seguita dalle pagine sulla riproduzione, sul parto (con l’intervista a un’ostetrica), sulla procreazione assistita, sull’aborto spontaneo. Chiudono il volume alcuni capitoli che spiegano il significato di “corpo intersessuale” e i rischi della chirurgia intersessuale così come della cosiddetta “chirurgia cosmetica dei genitali femminili”, e un elenco di “cose che ti sconsiglio di acquistare o di usare per/sulla/nella/nei dintorni della tua figa”, dalle lavande ai bagni di vapore, dalle “uova yoni” (famose quelle pubblicizzate da Gwyneth Paltrow) ai detergenti intimi, dai deodoranti vaginali agli spermicida.

 

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Depilarsi è davvero necessario?

Molto più leggero nella foliazione ma incisivo nella riflessione che propone è il provocatorio pamphlet Contropelo. O del perché spezzare la catena di depilazione, sottomissione e odio verso di sé, firmato dalla scrittrice catalana e attivista sui temi gender e identitari Bel Odid, con la prefazione di Giulia Zollino.

Contropelo

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Come è ben chiaro sin dal titolo, Bel Odid mette al centro dell’analisi la pratica della depilazione come massimo stereotipo dell’immagine femminile, per portare in superficie le conseguenze nocive che, complice una cultura contemporanea ancora condizionata dal patriarcato, minano e limitano la libertà delle donne e per riscoprire infine la bellezza di un corpo libero dalle imposizioni estetiche, a partire appunto dai peli superflui, che si dà per scontato che le donne non ne debbano mai e poi mai avere. Ma vale veramente la pena spendere tempo, soldi, energie e sopportare il fastidio, il dolore e i rischi della depilazione, è la domanda di fondo che Odid ci pone, per piacere sempre e anche a chi non ci apprezza così come siamo?

«Nella nostra società, le abitudini depilatorie femminili si sono intensificate al punto che, attualmente, le uniche zone in cui è accettabile avere peli sono la testa, le sopracciglia e le ciglia», nota l’autrice, che parla provocatoriamente di una “dittatura del controllo sociale dei loro corpi”, di una tirannia della “desiderabilità” esercitata sul corpo femminile. «Perché, sebbene all’interno della “polizia dei corpi” ci siano bambini e bambine, donne e uomini, i suoi argomenti sono sempre a favore dello sguardo maschile e del soggetto uomo eterosessuale come giudice di ciò che è desiderabile: “Con quei peli non ti vorrà nessuno” (intendendo, con quel “nessuno”, nessun uomo come si deve). Non c’è spazio per celebrare il corpo che abbiamo così com’è e la lezione che trasmettiamo è durissima: se vuoi soffrire di meno, se vuoi piacere, adeguati a ciò che ci si aspetta da te. E così anche coloro che esercitano la violenza imparano che la loro intolleranza merita un premio: basta insistere nel disprezzo e negli insulti finché l’altra parte non soccombe e si adegua».

Piacere, desiderio e femminismo nel saggio di Amia Srinivasan

A collegare i concetti di libertà e di consenso, di sesso e potere, di violenza e discriminazione è Amia Srinivasan, giovane filosofa docente all’All Souls College di Oxford che nel saggio Il diritto al sesso. Piacere, desiderio, femminismo raccoglie sei testi in cui, prendendo le mosse dalle posizioni e dai dibattiti delle femministe del Novecento – da Simone de Beauvoir ad Angela Davis, da Catharine MacKinnon ad Andrea Dworkin e bell hooks -, ne analizza a fondo contenuti e risultati per proporre nuovi spunti di riflessione alla nostra contemporaneità.

Il diritto al sesso

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Il sesso è un diritto?, si chiede innanzi tutto la studiosa. Esiste un’etica del sesso femminile e una maschile? La rivoluzione sessuale ha liberato il piacere delle donne? «Esaminiamo questa cosa apparentemente naturale, il “sesso”, solo per scoprire che è già carica di significato», scrive nella prefazione Amia Srinivasan.

«Alla nascita, i corpi vengono etichettati come “maschili” o “femminili”, anche se molti devono essere mutilati per rientrare nell’una o nell’altra categoria e, in seguito, protesteranno contro la decisione presa. Questa divisione originaria determina lo scopo sociale che verrà assegnato a ciascuno di loro. Alcuni servono a generare altri corpi, a lavarli, vestirli e nutrirli (per amore, mai per obbligo), a infondere loro un senso di benessere, completezza e protezione, a farli sentire liberi. Il sesso, dunque, è una cosa culturale che si spaccia per naturale. Il sesso, che le femministe ci hanno insegnato a distinguere dal genere, è già genere sotto mentite spoglie».

Nella sua forma migliore, osserva la filosofa, «la teoria femminista «rivela possibilità, per la vita delle donne, che sono latenti nelle loro battaglie, rendendo quelle possibilità più concrete. Troppo spesso, tuttavia, la teoria femminista prescinde dai dettagli della vita delle donne, solo per dire loro, dall’alto, cosa la loro vita significa davvero. La maggior parte delle donne non sa cosa farsene di affermazioni così boriose. Ha troppo lavoro da fare».

Per approfondire