L’orto, come il lutto, richiede il suo tempo

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Redazione BookToBook
15 Apr 2021

La mancanza di speranza nel futuro, le delusioni di una vita che non ti soddisfa, i sensi di colpa, la bassa autostima, l’ansia di non essere all’altezza, l’angoscia delle scadenze da rispettare, il dolore lancinante di un lutto.

Chi di noi, in un momento o l’altro dell’esistenza, non ha provato qualcosa di simile?

Non ha mai desiderato di scappare da tutti e tutto, di rintanarsi nella solitudine, di sfuggire alle responsabilità imperanti, di chiudere fuori la luce e nascondersi nel buio?

Come elaborare il lutto prendendosi cura del giardino

Leggendo I quaderni botanici di Madame Lucie, viene quasi naturale immedesimarsi in Amande, la protagonista del romanzo di Mélissa Da Costa, scrittrice francese che viene ora pubblicata per la prima volta in Italia, con Rizzoli, e che nel suo paese aveva esordito col primo romanzo Tout le bleu du ciel, tra i dieci libri più venduti in Francia nel 2020.

«Una voce che invita ad aprire gli occhi e il cuore», ha scritto giustamente di lei la rivista “Ici Paris”.

I quaderni botanici di Madame Lucie

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Amande Luzin ha trent’anni e ha appena affittato una vecchia casa nelle campagne francesi dell’Auvergne, dove ha deciso di nascondersi dopo la morte improvvisa di suo marito e della bambina che portava in grembo.

«Come fanno le persone? Come si può veder crollare il tuo universo e riprendere la stessa vita che facevi? Tornare al lavoro dopo qualche giorno, continuare ad abitare nello stesso appartamento, frequentare lo stesso quartiere… È al di sopra delle mie forze. Hanno abbandonato il mio mondo all’improvviso, tutti e due, la stessa notte, e a partire da quel momento quel mondo, il mondo in cui mi muovevo, respiravo, mi svegliavo da ventinove anni, quel mondo non esiste più.»

Fuori è l’estate luminosa di luglio ma lei non vuole più l’interferenza della luce, della vita attorno. Tiene le imposte chiuse, non si lava, sta in pigiama per giorni e giorni, non risponde al telefono.

«Dovrò pur uscire dal mio antro. Le scorte sono esaurite. Con quel che resta dell’ultimo pacco di riso non tirerò più di mezza giornata. Mangio poco, ma comunque mangio, altrimenti non avrei più le energie per alzarmi dal letto. L’insonnia annienta tutto. Credevo che a forza di stancarmi avrei finito per addormentarmi. Mi sbagliavo. Qualcosa nel mio cervello si è bloccato, qualcosa che mi impedisce di dormire a lungo. Un’ipervigilanza. Un istinto di sopravvivenza? Stamattina devo comunque attingere alle ultime forze che mi rimangono per lavarmi, vestirmi e camminare fino all’auto. Ho pianificato tutto nei minimi dettagli. So quindi che il primo supermercato è a dodici chilometri. Ho fatto una lista della spesa precisa per passare meno tempo possibile sotto i neon aggressivi, in mezzo a tutta quella gente. Nemmeno l’ora in cui esco è casuale: è quella di minore affluenza nei negozi e del minor traffico sulle strade. Ciò che voglio è tornare al più presto alla mia oscurità.»

Finché un giorno non trova strani appunti su agende e calendari scritti dalla vecchia proprietaria, Madame Lucie:

«In corrispondenza di alcune date ci sono delle note. 2 aprile: Trapiantare le piante di lattuga. 6 aprile: Dividere i cespi di erba cipollina. 10 aprile: Vivaio. 13 aprile: Seminare il prezzemolo. 18 aprile: Torta con la marmellata di fragole? 20 aprile: Piantare le dalie. 22 aprile: Sistemare i mobili da giardino sotto l’albero di Paul. 30 aprile: Rinvasare gli oleandri.»

La terra circonda la casa, abbandonata e incolta. Amande non ha mai indossato un paio di stivali di gomma ma cede: esce alla luce del sole, si lascia assalire dai profumi e dai colori della natura, riprende in mano gli appunti di giardinaggio di Madame Lucie.

«Ho comprato una carriola. Rossa. È strapiena di tutto il materiale che ho caricato nel bagagliaio dell’auto stamattina: rastrello, secchi, vanghe, guanti da giardinaggio, aceto, sale (per la ricetta del diserbante naturale della signora Hugues), un concime biologico specifico per ortaggi, un altro più adatto per i fiori. Il tosaerba me lo consegneranno domani. In negozio non ne avevano più, ma il proprietario mi ha assicurato che facendolo arrivare da un magazzino di Lione, sarà a casa mia domani entro le quattro. Non ho particolarmente fretta.»

L’elaborazione del lutto non è l’unico super potere del giardinaggio

Come fa il giardinaggio ad avere degli effetti su di noi? Come può aiutarci a trovare o a ritrovare il nostro posto nel mondo quando abbiamo l’impressione di averlo perso? Ci risponde Sue Stuart-Smith, psichiatra e psicoterapeuta, nel suo saggio appena arrivato in libreria per Rizzoli, Coltivare il giardino della mente. Il potere riparatore della natura.

Coltivare il giardino della mente

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«In questo periodo del XXI secolo, con i tassi di depressione, ansia e altri disturbi mentali che appaiono in continua crescita, e con uno stile generale di vita sempre più urbanizzato e dipendente dalla tecnologia, è forse più importante che mai comprendere i molti modi in cui la mente e il giardino interagiscono.»

Sembra quasi che si siano parlate, Amanda Luzin e Sue Stuart-Smith. La psichiatra, che ha insegnato alla Tavistock Clinic di Londra, ha lavorato nell’Hertfordshire per il National Health Service e insieme al marito Tom, celebre designer di giardini, ha curato la realizzazione del meraviglioso Barn Garden nell’Hertfordshire, nel suo saggio davvero illuminante combina scienza e letteratura, psicoanalisi e consigli pratici per parlarci del potere rigenerante che può avere la natura su di noi, quello stesso potere che, nel romanzo di Mélissa Da Costa, consente ad Amanda di rinascere.

Scrive Sue Stuart-Smith:

«Quando muore qualcuno che ci è molto vicino, è come se morisse anche una parte di noi. Vogliamo aggrapparci a quella vicinanza e mettere a tacere la sofferenza emotiva. A un certo punto, tuttavia, sorge una domanda: possiamo tornare in vita? Lavorando un fazzoletto di terreno e prendendoci cura delle piante, abbiamo la scomparsa e il ritorno costantemente sotto gli occhi. I cicli naturali della crescita e della decomposizione possono aiutarci a comprendere e ad accettare che il lutto fa parte della vita e che, quando non possiamo abbandonarci al dolore, è come se un inverno perenne si impadronisse di noi.»

Il libro di Stuart-Smith va ovviamente al di là dell’analisi del dolore della perdita per illustrarci come esperienze, pensieri, ricordi e sentimenti plasmano senza sosta le nostre reti neurali, che a loro volta determinano il modo in cui pensiamo e sentiamo. Lo fa alla luce della sua competenza medica quando, per esempio, ci descrive l’azione benefica di neurotrasmettitori come le endorfine, la dopamina e la serotonina coniugata al contatto diretto con la natura, e quando ci svela l’importanza del giardinaggio nella sua stessa vita e di come ha influito, sulla sua scelta professionale di specializzarsi in questa materia, la storia della guarigione del nonno Tom, radiotelegrafista e sommergibilista della Prima guerra mondiale, fatto prigioniero in Turchia e riabilitatosi dai traumi subiti grazie a un lungo processo di cura che iniziò nel 1920 proprio con un corso di orticoltura.

«Quando si è in un giardino, il livello del rumore di sottofondo diminuisce ed è possibile sottrarsi ai pensieri e ai giudizi altrui, perciò forse si è più liberi di stare bene con se stessi. Questa pausa dalla dimensione interpersonale della vita può, paradossalmente, essere un modo per ristabilire il contatto con la propria umanità.»

Ecco perché il giardinaggio e l’orticoltura terapeutica sono pratiche ormai diffuse nelle scuole e negli istituti penitenziari in molti paesi del mondo, come mostrano i risultati di ricerche e programmi realizzati negli ultimi decenni in Europa e negli Stati Uniti. Per esempio, dal 2007 la britannica Royal Horticultural Society (RHS) gestisce una campagna per diffondere il giardinaggio nelle scuole.

«Quasi tutte le carceri sono piene di persone che hanno fallito all’interno del sistema scolastico e l’incidenza delle difficoltà di apprendimento nella popolazione carceraria è molto alta. Inoltre molti detenuti hanno interiorizzato un’idea di sé così negativa e profondamente radicata da impedire loro di immaginare la possibilità di un cambiamento. L’esperienza di far crescere qualcosa, tuttavia, può essere il primo passo verso la scoperta di un senso d’identità che non è finalizzato a fregare il sistema oppure a ingannare o rubare, e può offrire una fonte di autostima che non deriva dalla violenza o dall’intimidazione.»

In Coltivare il giardino della mente Sue Stuart-Smith riporta inoltre la testimonianza di molte persone vittime di dipendenze, che ha incontrato nel corso dei suoi studi. Come Renata, ospite della comunità di San Patrignano, che aveva iniziato a drogarsi durante l’adolescenza e ora coltivava fiori nel vivaio annesso alla struttura d’accoglienza.

Coltivare il giardino della mente citazione

È la capacità trasformativa di un giardino il tema cardine su cui la psichiatra invita a riflettere. «Quando seminiamo, piantiamo una narrazione di possibilità future», proprio come succede ad Amande o come successe a Sigmund Freud, il cui grande amore per i fiori lo aiutò a superare la morte della figlia Sophie, vittima dell’epidemia di influenza spagnola, e la devastazione della Prima guerra mondiale, durante la quale Claude Monet, come ci racconta l’autrice, «restò nel suo giardino a Giverny, rifiutandosi di separarsi dai suoi fiori anche mentre si avvicinavano le truppe nemiche». Scrisse: «Io devo forse ai fiori l’essere diventato pittore».

Tuttavia, ci avverte la psicoterapeuta,

«è difficile aprirsi a nuove esperienze se la mente è piena di sentimenti tossici, ma l’olfatto neutralizza questo effetto. È il senso più potente e primitivo, perché il naso è in comunicazione diretta con l’amigdala e con i centri delle emozioni e della memoria.»

Mentre coltiviamo la terra,

«coltiviamo un atteggiamento di premura verso il mondo, anche se nella società odierna un simile atteggiamento non viene incoraggiato. La cultura della “sostituzione” anziché della “riparazione”, unita alle reti sociali frammentate e al ritmo frenetico della vita urbana, ha generato una serie di valori che sminuisce la sollecitudine.»

L’orto, come il lutto, richiede il suo tempo

Di sollecitudine e di cura parla anche Matteo Cereda, coltivatore di zafferano in Brianza e fondatore di ortodacoltivare.it, il portale dedicato alle coltivazioni biologiche più visitato d’Italia. Con Rizzoli ha appena pubblicato una guida imperdibile, soprattutto oggi in tempo di pandemia: Mettete orti sui vostri balconi. Il manuale completo per coltivare ortaggi in vaso.

Mettete orti sui vostri balconi

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«L’orto ha bisogno di costanza, di dedizione e di una cura fatta di piccole attenzioni quotidiane. Ci impone un ritmo di vita diverso da quello frenetico a cui siamo abituati. Ogni cosa richiede il suo tempo: non possiamo piegare i lentissimi semi della carota al nostro desiderio di vederli germinare subito, occorre saper aspettare. Coltivando si riscopre un rapporto con la natura e con il cibo, che rischiamo di perdere.»

In 350 pagine coloratissime, illustrate con chiarezza in tabelle e disegni, c’è tutto quel da sapere per coltivare ovunque: in un balcone, su un terrazzo, in cortile o persino su un semplice davanzale. Ci sono le tabelle degli ortaggi e la dimensione del vaso più adatta per ciascuno così come l’esposizione solare di cui necessitano; le tecniche d’irrigazione (senza spreco d’acqua); quali piante possono essere coltivate in verticale; i consigli sul terriccio e come riutilizzarlo da un anno all’altro; la concimazione, il calendario della semina e l’influsso della luna; la tecnica delle consociazioni e le operazioni colturali come la legatura del sedano o la cimatura; i piccoli trucchi come la pacciamatura o i preparati repellenti per difendere le piante senza usare gli insetticidi; quando raccogliere, come fare il compost sul balcone e moltissime schede colturali.

«Per portare in tavola un basilico buono non ci sono scorciatoie», ci avverte Cereda: «Bisogna coltivarlo. Molti non conoscono l’odore che sprigiona la pianta del pomodoro. Mangiare un pomodorino fresco non è la stessa cosa, se prima non si respira quell’essenza particolare. Un’esperienza che chi compra i pomodori al supermercato non può provare».

E cosa dire delle migliaia di varietà completamente differenti tra loro per aroma e grado di piccantezza del peperoncino? «Su questa straordinaria biodiversità si possono scrivere trattati, e infatti ne sono stati scritti, ma dall’ortolano è raro trovare più di due o tre tipologie. Un appassionato di piccante che vuole sperimentare sapori differenti è praticamente obbligato a seminare i suoi peperoncini. Le motivazioni che spingono a coltivare sono spesso piccole cose come queste». Ma, attenzione:

«Non avrebbe senso fare orto sul balcone per convenienza economica: difficilmente ricaverete quantità significative di ortaggi dalle piante in vaso e in genere un terrazzo non basta per l’autosufficienza di una famiglia. Quello che si ottiene coltivando è piuttosto una soddisfazione non calcolabile in chilogrammi di raccolto, tanto meno in euro risparmiati. Per chi vive in città e non ha un giardino, coltivare sul balcone significa avere la possibilità di riprendersi un piccolo spazio verde, è una piccola rivoluzione green. Col tempo ci si accorgerà anche degli insegnamenti profondi che la coltivazione ci offre.»

Lo stesso tempo lento che ha imparato Amande nella sua casa di campagna:

«Qualche anno fa, nella mia vita precedente, ho letto un articolo che diceva che nel corso dei secoli si è perso il rito del lutto e che per le persone le conseguenze si sono rivelate nefaste. Una volta si osservava il lutto per settimane, addirittura mesi. Le donne si vestivano di nero per esprimere il loro dolore, nascondevano il viso dietro lunghe velette ed erano proibiti i gioielli, a eccezione di quelli in legno scuro. Gli uomini mettevano un nastro nero attorno al cappello o una fascia nera attorno al braccio. Tutti interrompevano le loro attività e si riunivano in famiglia. C’era un tempo per curare il proprio dolore, per ricordare, per dire addio come si deve. Oggi, la routine deve riprendere appena dopo il funerale: il lavoro, le bollette da pagare… La società non ha più tempo per il lutto.

Io non ci riesco. Per questo mi sono esiliata nell’Auvergne. Ho bisogno di tempo.»

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