La versione di Chelsea

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Redazione BookToBook
21 Nov 2022

Tra le parole straniere entrate a buon diritto nel vocabolario della lingua comune c’è il termine “whistle-blowing”. Alcuni dizionari lo liquidano come “soffiata”, altri arricchiscono il lemma di un significato che chiama in causa direttamente la democrazia e il diritto dei cittadini a essere informati. Cosicché “whiste-blower” diventa chi denuncia comportamenti illeciti o illegali di amministratori e politici rivelando informazioni segretate dall’interno dell’organizzazione stessa a cui appartiene. Urbandictionary.com, tra i vocabolari online più attenti a cogliere le trasformazioni della lingua parlata nella società contemporanea, già nel 2013 definiva i whistle-blower come dei veri e propri eroi: «The heroes that expose crimes and corrupt activities even though they will be punished harshly by the government for daring expose their dirty secrets» (tradotto liberamente: «Gli eroi che denunciano crimini e corruzione pur sapendo che saranno puniti con durezza dai potenti per aver svelato le loro nefandezze»). Urban Dictionary cita quindi due famosi whistle-blower: Edward Snowden e Bradley Manning.

Nel frattempo Manning ha cambiato nome, grazie alla transizione da uomo a donna per cui ha chiesto e ottenuto il sostegno da parte dello stato americano, e oggi è universalmente conosciuta come Chelsea Manning, la più celebre whistle-blower dei nostri tempi.

 

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Condannata nel 2013 a trentacinque anni di carcere e tornata in libertà nel 2017 grazie alla commutazione di pena decisa dall’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama, ora Chelsea Manning ha deciso di raccontare la sua versione dei fatti in un libro pubblicato in Italia da Rizzoli, README.txt. La mia storia, che è il manifesto di due battaglie: per la trasparenza governativa e per la difesa dei diritti delle persone transgender.

README.TXT

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Chelsea Manning: le tappe del caso

Il caso scoppia nel 2010 quando Chelsea Manning, all’epoca ventiduenne, lavorava come analista di intelligence dell’esercito degli Stati Uniti. «Il mio lavoro», spiega Manning nel libro, «consisteva nell’analizzare, mantenendo il distacco emotivo, l’impatto delle decisioni militari e dei movimenti dei soldati su quella gigantesca e sanguinosa “guerra al terrorismo”». Era stata inviata in Iraq, presso la base operativa avanzata Hammer a est di Baghdad, nell’autunno del 2009.

«Il diritto umano alla privacy, a non essere manipolati o costretti con la forza a fare qualcosa o addirittura rovinati dal governo non erano elementi sui quali riflettevo a fondo. Non all’inizio, almeno. E non mi soffermavo più del dovuto sulle implicazioni etiche di quanto stavo facendo, sul quadro d’insieme e sul ruolo che vi svolgevo.
Ma una volta che iniziai a vedere i risultati, il pensiero mi colpì in pieno: i miei compiti quotidiani s’inserivano in un’immagine più ampia e disturbante del ruolo svolto dall’America nella regione. Non potevo non vedere gli effetti brutali di quanto stavamo facendo sul campo.»

L’8 febbraio 2010, dopo essere rientrata negli Usa per una breve licenza, dal caffè della libreria Barnes & Noble di Rockville, in Maryland, carica sui server di WikiLeaks (dietro cui operavano Julian Assange e Daniel Domscheit-Berg), insieme a un file di testo salvato col nome Readme, “leggimi”, quasi mezzo milione di documenti militari e diplomatici contenenti segnalazioni su eventi avversi e registri di attività significative, i cosiddetti SIGACT (da “significant activity”), che Manning aveva copiato sulla scheda di memoria della sua macchina fotografica per nasconderli ai controlli in aeroporto. Si trattava, spiega Manning nel libro, «di ogni singolo rapporto compilato dall’esercito degli Stati Uniti su Iraq e Afghanistan quando un soldato aveva ritenuto che qualcosa fosse abbastanza importante da essere registrato e riportato. Descrizioni di combattimenti con forze ostili o attacchi con gli esplosivi. Contenevano i conteggi dei morti, le coordinate e riassunti professionali di scontri disorientanti e violenti. Tutti insieme offrivano un quadro in stile puntinista di guerre che non sembravano destinate a finire».

Il 21 febbraio Chelsea Manning invia a WikiLeaks un file video risalente al luglio 2007, divenuto poi virale col nome Collateral Murder: erano le riprese di un elicottero Apache mentre attaccava un bersaglio sbagliato. Il filmato mostra la morte di civili iracheni innocenti e di due reporter della Reuters nella periferia di Baghdad. «Quello che hanno scambiato per un lanciarazzi da spalla tipo RPG è in realtà l’obiettivo della macchina fotografica di un reporter della Reuters, che spunta da un angolo di un edificio per riprendere la scena. L’elicottero che guida la formazione apre il fuoco». Il video viene reso pubblico da WikiLeaks due mesi dopo; da lì a poco sarebbero stati diffusi anche i file sulle SIGACT.

Chelsea Manning viene arrestata nel maggio del 2010. Rimane rinchiusa in una gabbia di acciaio di due metri e mezzo per due metri e mezzo, sotto a una tenda presso il Camp Arifjan in Kuwait, nella stagione più calda dell’anno, per cinquantanove giorni. Alla fine di luglio, WikiLeaks diffonde settantacinquemila documenti in seguito ribattezzati Afghan War Logs, pubblicati in contemporanea dal “Guardian”, dal “New York Times” e da “Der Spiegel”. Manning è ancora chiusa in gabbia, ignara di quel che sta accadendo; quattro giorni dopo la divulgazione dei documenti, viene trasferita in una struttura militare detentiva a Quantico, in Virginia, presso la base dei Marine. A ottobre “New York Times”, “Guardian”, “Al Jazeera”, “Le Monde”, il Bureau of Investigative Journalism, il progetto Iraq Body Count e “Der Spiegel”, d’accordo con WikiLeaks, pubblicano altre rivelazioni, i cosiddetti Iraq war logs, per oltre trecentonovantamila documenti, seguiti nel novembre 2010 da una serie di cablogrammi del Dipartimento di Stato americano. Nell’aprile del 2011 Manning viene trasferita a Fort Leavenworth, Kansas. Nel 2013 viene condannata a trentacinque anni di carcere, ventidue i capi d’imputazione. Il giorno dopo la sentenza, Manning dichiara di essere una persona di genere femminile e chiede che sia l’amministrazione civile e militare a fornirle i mezzi per la transizione. Ottiene l’autorizzazione a iniziare la terapia ormonale e il 16 febbraio 2015, «dopo alcune settimane di controlli medici, mi presentai allo sportello dell’infermeria e ritirai la prima dose. Ero la prima persona a sottoporsi a un trattamento ormonale all’interno di un carcere militare, e tra le prime nell’esercito in generale».

Chelsea Manning – L’infanzia e la battaglia in difesa dei diritti civili

Ecco perché README.txt. La mia storia è il manifesto non soltanto della battaglia per la trasparenza governativa, ma anche per la difesa dei diritti civili. Manning ha dedicato il libro «alle ragazze e ai ragazzi trans che lottano con coraggio per affermare ciò che sono in un mondo ostile». Scrive Manning: «Almeno nella mia esperienza personale, essere trans ha meno a che fare con l’essere una donna intrappolata nel corpo di un uomo e molto di più con l’innata discrepanza tra la persona che sentivo di essere e quella che il mondo voleva che fossi».

Nata il 17 dicembre 1987, Chelsea Manning era cresciuta in una cittadina decadente dell’Oklahoma. I genitori provenivano entrambi da famiglie operaie. Il padre, Brian Edward, aveva svolto il servizio militare in Marina; inviato presso la base della Royal Air Force in Galles, era diventato sottufficiale e si occupava di intercettazioni sensibili. Nel Galles il padre conosce la madre, Susan Mary Fox; si sposano il giorno dopo che il padre compie ventun anni. «I miei genitori, però, non vissero per sempre felici e contenti». Entrambi bevono molto, l’alcolismo fa da sfondo all’infanzia di Chelsea e della sorella maggiore Casey. Il bambino Bradley voleva «essere come lei. A cinque o sei anni m’intrufolavo in camera sua e provavo le sue cose». «La mia infanzia mi appare tutta vissuta all’ombra di una rigida sensibilità cisgender», racconta Chelsea nel libro. «A quattro anni chiesi a mio padre se da grande avrei potuto vivere come mia sorella, con i suoi trucchi e i suoi vestiti. Lui rispose che avevo bisogno di uscire e fare “cose da maschi”. Mi proibì di guardare il mio film preferito, La sirenetta, e mi riempì la stanza di giochi a tema militare».

Intanto, però, le insegna le prime nozioni di informatica, mostrandole «come scrivere stringhe di codice poco dopo che avevo imparato a leggere. All’inizio non capivo davvero quel linguaggio, mi limitavo a digitare seguendo alla lettera le istruzioni del manuale, ma intorno ai dieci anni ero già in grado di immaginare e realizzare semplici giochi, ad esempio quello di un atleta di salto con gli sci che zigzagava giù da una montagna innevata. A dieci anni misi anche in piedi il mio primo sito internet, piuttosto semplice, dedicato agli appassionati di un popolare gioco del Nintendo 64». In quello stesso anno Bradley bacia per la prima volta un ragazzo, Sid. «Una volta Sid si rese conto che eravamo osservati e mi spinse via. “Levati di dosso, frocio”». Fino al 2003 in Oklahoma vigeva il “reato omosessuale”. Dell’episodio viene a conoscenza il preside della scuola, che convoca il padre di Bradley minacciando la sospensione del figlio. «Mio padre mi riempiva di botte», racconta oggi Chelsea, che nel 1993 inizia a frequentare le chat online, «piene di hacker smanettoni», ed entra in contatto con la comunità queer. A dodici anni, la sera in cui i genitori le annunciano la decisione di divorziare, la madre si chiude in bagno e tenta il suicidio.

«La paura di vederla morire cambiò colore a ogni cosa. Ora sapevo quanto fosse difficile per lei anche solo prendersi cura di se stessa, figurarsi di me. Quando morì, nel gennaio del 2020, erano ormai decenni che pensavo a cos’avrei provato in quel momento».

Nel 2001, a due mesi dall’attacco alle Torri Gemelle, i genitori divorziano. Nel 2005, dopo una lite con la nuova moglie del padre, col quale conviveva, Chelsea Manning viene buttata fuori di casa e diventa «ufficialmente una senzatetto», come racconta lei stessa. Recupera un vecchio furgone del padre, vaga di città in città finché nel 2006 riceve una telefonata dalla sorella del padre, zia Debbie, che la accoglie in casa. Si iscrive a un’università pubblica, pagandosi la retta lavorando, finché l’alternanza massacrante tra turni di lavoro e ore dedicate allo studio la fanno desistere. Nell’estate del 2007 «alla tv, la guerra in Iraq era costantemente sullo sfondo». Ogni sera la zia, avvocata, «tornava a casa dal lavoro e guardava con orrore i notiziari. Anche suo marito, un appaltatore della Difesa, era contrario alla guerra. Discutevano per ore di ciò che il presidente George W. Bush e il vicepresidente Dick Cheney avevano sbagliato. Quanto a me, le mie opinioni sul conflitto in Iraq e Afghanistan erano meno nette. Prendevo la missione per buona. Non avevo approfondito granché le ragioni per cui il nostro Paese era andato in Iraq. Credevo alla storia che propinavano i media: per mettere fine alle violenze dovevamo aumentare le dimensioni del nostro contingente». Fu in quel momento che Chelsea valuta seriamente l’eventualità di arruolarsi, «avrei sentito di nuovo che la mia vita aveva un senso. Io volevo andare in Iraq».

La politica del Don’t ask, don’t tell («non si chiede, non si dice») adottata dall’esercito americano sull’orientamento sessuale dei propri soldati non avrebbe creato problemi ai fini del reclutamento a Fort Meade. Dopo aver superato il durissimo addestramento di base in Missouri e l’addestramento per gli addetti all’intelligence presso la base di Fort Huachuca, in Arizona, Chelsea Manning comincia a lavorare come analista d’intelligence a Fort Drum, vicino al Lago Ontario, a supporto delle brigate americane dispiegate in Afghanistan. «Esaminavo enormi quantità di dati e ne ricavavo previsioni dettagliate che fossero utili agli ufficiali per scegliere la strategia più adatta». Poi c’erano gli obiettivi specifici. «Chiunque suscitasse l’interesse – in senso molto lato – degli Stati Uniti poteva essere un obiettivo. Avvalendoci dei metodi più raffinati a disposizione del governo, potevamo apprendere ogni cosa a proposito di una persona», spiega Manning. «Il livello di dettaglio e la vastità delle informazioni a disposizione lasciavano senza fiato. Avevamo accesso a ogni aspetto delle vite degli obiettivi: i loro pregi, i difetti, le bugie, le speranze… Conoscere così a fondo la mente di qualcuno è ben più invasivo di una perquisizione approfondita. Le persone credono che almeno i loro pensieri rimarranno qualcosa di privato, ma non è così».

Chelsea Manning: «Basta parlare del mio passato»

Nell’intervista a “Vanity Fair” pubblicata pochi giorni fa, la giornalista Silvia Bombino chiede a Chelsea Menning se la disforia di genere di cui ha sofferto in tutti questi anni, e il bisogno di una coerenza personale tra il dentro e il fuori del suo corpo, non sia legata alla ricerca della verità che ha compiuto divulgando i documenti segretati dell’esercito americano. «Forse, ma vorrei dirlo forte e chiaro», risponde Chelsea;

«ho affrontato due cose molto diverse. La questione della soffiata è andata velocissima, è durata qualche mese tra la consegna del materiale e la sua pubblicazione, mentre la ricerca di me stessa è stata una lotta che è durata tutta la vita. Inoltre la mia storia personale non aveva nulla a che fare con i problemi etici che hanno milioni di impiegati del governo ogni giorno. I dubbi che avevo io sulle azioni della nostra amministrazione erano gli stessi che avevano molti altri ed è per questo che si scatena il panico quando qualcuno alza la testa, perché altri potrebbero fare lo stesso».

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