Chi ha paura della baba yaga?
Scritto da:
Redazione BookToBook
24 Gen 2019
Di certo della baba yaga non ha paura Sophie Anderson, autrice di La casa che mi porta via, nata a Swansea, in Galles, e cresciuta ascoltando i racconti della madre scrittrice e della nonna, che le ha trasmesso l’amore per le favole e le leggende della tradizione slava.
Ma chi o che cosa è una baba yaga?
Una baba yaga è una creatura leggendaria della mitologia slava diventata, in tempi recenti, un personaggio fiabesco.
Il mito cambia a seconda delle regioni: si tratta di un personaggio dei rituali magici nelle vecchie terre slave della Carinzia in Austria; di un personaggio carnevalesco in Montenegro e di uno spirito della notte in Serbia, Croazia e Bulgaria.
In generale viene comunque descritta come una vecchietta dotata di poteri magici e di vari oggetti incantati, spesso paragonata a una strega o a una incantatrice.
Che abbia funzione positiva o negativa per il protagonista della storia, quella della baba yaga è una delle figure più enigmatiche e controverse del panorama mitologico europeo.
Nei racconti russi la baba yaga è una vecchia strega che si sposta volando su un mortaio, utilizzando il pestello come timone e che cancella i sentieri nei boschi con una scopa di betulla d’argento.
Vive in una capanna sopraelevata che poggia su due zampe di gallina, servita dai suoi servi invisibili. Il buco della serratura del portello anteriore è costituito da una bocca riempita di denti taglienti; le mura esterne sono fatte di ossa umane.
Sophie Anderson e la baba yaga per ragazzi
Che sia fonte di consiglio o che si tratti di una strega cattiva, non dev’essere facile essere la nipote di una baba yaga, soprattutto se si tratta di una Guardiana dei Cancelli che accompagna le persone nell’aldilà.
Da questo spunto nasce il libro per ragazzi di Sophie Anderson La casa che ti porta via, una storia intensa tra Anna dai capelli rossi e La sposa cadavere, con una protagonista coraggiosa che, a forza di scavalcare gli “steccati” imposti dalle circostanze, riesce a costruirsi una vita tutta sua.
Ecco come inizia il libro:
La mia casa ha le zampe di gallina. Due o tre volte l’anno, senza il minimo preavviso, si alza e nel cuore della notte se ne va dal luogo in cui abitiamo.
A volte cammina per centinaia di chilometri, altre per migliaia, ma il punto in cui si ferma è sempre uguale: isolato, tetro, ai margini della civiltà.
Si rannicchia in boschi cupi e impervi, attraversa sbatacchiando macchie di tundra spazzate da venti gelidi, si acquatta tra ruderi diroccati all’estrema periferia delle città. In questo momento è appollaiata su una cengia rocciosa in cima a una montagna brulla. Siamo qui da due settimane, e ancora non ho visto anima viva.
Di morti, ovviamente, ne ho visti un mucchio.
Vengono a cercare Baba, e lei li accompagna al Cancello.
Ma le persone vere, vive, che respirano, loro se ne stanno tutte in città o nei paesi, ben più in basso rispetto a dove siamo noi.
Se fossimo in estate, magari qualcuno di loro si spingerebbe sin quassù a fare una passeggiata, o un picnic, o anche solo a guardare il panorama. Forse, chissà, mi sorriderebbe e farebbe ciao. Potrebbe passare qualcuno della mia età… magari addirittura un intero gruppo di ragazzini. Si fermerebbero al ruscello a fare un tuffo per rinfrescarsi. E magari mi inviterebbero a unirmi a loro.
«Come va con lo steccato?» grida Baba dalla finestra aperta, strappandomi ai miei sogni a occhi aperti.
«Ho quasi finito.» Incastro un altro femore nel muretto di pietra. Di solito conficco le ossa direttamente nel terreno, ma il fondo qui è troppo sassoso, e così ho costruito un recinto di pietra alto fino al ginocchio tutto intorno alla casa, ci ho infilato dentro le ossa e in cima ho appoggiato, in equilibrio, i teschi. Ma di notte continua a crollare. Non so se è per il vento, per gli animali selvatici, o per colpa di morti maldestri, ma da quando siamo qui non c’è stato giorno in cui non abbia dovuto ricostruirne un pezzetto.
Baba dice che lo steccato è importante, perché tiene lontani i vivi e come un faro attira i morti. Ma non è per quello che lo aggiusto. Mi piace lavorare con le ossa perché una volta, tanto tempo fa, anche i miei genitori le hanno toccate, quando costruivano gli steccati e accompagnavano i morti.
A volte mi sembra di ritrovare sospesa nelle ossa gelide un’ombra del tepore delle loro mani, e così riesco a immaginarmi la sensazione
di stare davvero tra le braccia dei miei genitori.
È una carezza e un graffio al cuore nello stesso tempo.