Epopea di una grande famiglia del Novecento

Scritto da:
Redazione BookToBook
16 Dic 2020

Quella della Olivetti è l’epopea di una grande famiglia italiana che s’intreccia alla grande storia del Novecento e si tinge di giallo nel momento in cui s’indaga sulla morte di Adriano Olivetti nel 1960 e del suo ingegnere Mario Tchou nel 1961.

Due date funeste che hanno sempre alimentato sospetti e che oggi tornano a farsi sentire con Il caso Olivetti. La IBM, la CIA, la Guerra Fredda e la misteriosa fine del primo personal computer della storia, quattrocento pagine lungo le quali Meryle Secrest, tra le più affermate biografe americane, ricostruisce i fatti attraverso documenti d’archivio e interviste agli Olivetti, ad amici ed ex dirigenti, rilanciando la tesi che gli Stati Uniti d’America non siano stati estranei al declino dell’azienda d’Ivrea.

Il caso Olivetti

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Che cosa si nasconde, si chiede l’autrice, dietro la morte di Adriano Olivetti, un uomo che, noto alla Cia come un “comunista” in piena Guerra fredda, sosteneva un modello aziendale e sociale progressista attento al benessere dei lavoratori e stava sfidando un colosso tecnologico americano come l’IBM?

 

«Un’immane operazione di spionaggio industriale, con la famiglia Olivetti nella parte delle vittime»

è l’ipotesi avanzata da Secrest, che ripercorre le vicende dei due uomini ai vertici di un’industria eccezionale, che avrebbe sviluppato il Programma 101, primo modello di desktop computer adottato dalla Nasa per lo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11.

Com’è nato il libro Il caso Olivetti

«La storia di com’è nato questo libro è particolare», racconta Meryle Secrest nelle prime righe del volume edito da Rizzoli. «Al pari di molti autori, nel tempo ho messo insieme una discreta mole di scritti brevi, cui però non sono mai riuscita a trovare un editore. Uno mi sembrava particolarmente ben riuscito». Descriveva un fine settimana che l’autrice aveva passato a Washington con Roberto, il figlio di Adriano Olivetti, quando l’azienda era ormai in crisi. Rileggendolo anni dopo, «avvertii di colpo l’impulso di scoprire cosa gli fosse successo. Esaminai i necrologi a lui dedicati: era morto nel 1985, all’età di cinquantasette anni». Gli articoli non riportavano la causa del decesso, «ma mi diedi da fare finché non riuscii a mettermi in contatto telefonico con sua figlia Desire, in Italia».

L’indagine parte dalla fine ma il libro comincia dall’inizio, quando Camillo Olivetti, classe 1868, proprietario di una piccola azienda di ingegneria elettrica,

«aveva capito che la penna d’oca stava per essere soppiantata da un nuovo strumento pensato per l’ufficio moderno: la macchina da scrivere.»

Nel 1960, l’anno in cui il figlio di Camillo, Adriano, morì su un treno diretto in Svizzera, la società commercializzava in oltre cento paesi ed era nota in tutto il mondo per aver inventato macchine come la Lexikon 80, la celeberrima portatile Lettera 22, la prima telescrivente italiana T1 e la Divisumma 14.

Pochi mesi prima, nell’autunno del 1959, la Olivetti aveva rilevato la Underwood, «la più grande acquisizione di sempre di un’azienda statunitense da parte di un acquirente straniero; per Adriano», scrive la Secrest, «significò coronare l’ambizione di una vita».

 

Nello stesso periodo Olivetti aveva aperto la strada al primo elaboratore centrale a transistor, «gareggiando testa a testa con la IBM».

«La compagnia d’Ivrea si era fatta un nome non solo per la capacità di reggere la concorrenza, ma per qualcosa di più difficile da raggiungere: l’unicità. Gli showroom a Parigi e New York riflettevano quell’eleganza nel design che sarebbe poi stata definita “tocco Olivetti”.»

 

Adriano aveva anche iniziato a sondare nuovi mercati oltre la cortina di ferro: «I paesi del blocco sovietico, Russia inclusa, offrivano un enorme potenziale di crescita», fa notare l’autrice. «Stava persino valutando di esportare i suoi prodotti nella Cina comunista».

 

L’influenza dell’azienda non era solo questione di mercato, ma «nasceva anche da un atteggiamento illuminato verso i lavoratori», con salari migliori rispetto alle concorrenti e una sede dotata di biblioteca, un cinema, un centro ricreativo, un’infermeria, mense e bus dedicati. La regola di Camillo era stata che

«nessun lavoratore andasse licenziato, al limite lo si poteva assegnare a nuove mansioni. La produttività degli stabilimenti era invidiabile, così come la lealtà degli operai.»

 

Sabato 27 febbraio 1960 Adriano stava mettendo a punto gli ultimi dettagli per il lancio delle azioni Olivetti-Underwood, che sarebbero state quotate il lunedì successivo sulla Borsa di Milano, da dove avrebbe preso quel treno diretto in Svizzera.  Aveva cinquantotto anni.

«All’apparenza, la spiegazione della sua morte appare logica.»

 

Proprio come il padre, «soffriva spesso di crolli nervosi», uno di questi nel 1950, alla nascita della figlia Lalla. «È plausibile che sia stato vinto da un infarto o da un’emorragia cerebrale, come sostenuto da un medico svizzero il cui giudizio venne molto citato», scrive l’autrice, che però aggiunge: «Solo uno tra i tanti resoconti apparsi sui giornali specificò che il dottore non poteva dirlo con certezza, e raccomandò alla famiglia di far esumare il corpo per un’autopsia», che ufficialmente non venne mai eseguita.

I fantasmi di casa Olivetti

La stessa Lalla ricorda che, da bambina, sentiva di notte i passi della guardia del corpo sotto la finestra della camera. «Non che Adriano avesse prestato particolare attenzione alle telefonate con minacce di morte che – si dice – aveva ricevuto nelle settimane precedenti alla sua scomparsa», racconta Secrest. «Pare che considerasse l’acquisizione della Underwood un affare come un altro, e ne ignorasse le potenziali insidie». Ma ora sappiamo che qualcuno all’interno della società «fu poi complice del furto del P101: viene logico pensare che un compratore particolarmente interessato abbia sborsato una cifra esorbitante per averlo». Sappiamo che il giorno del funerale di Adriano il suo studio e quello del fratello Dino «vennero messi a soqquadro per rubare qualcosa, anche se non sappiamo chi fossero i malintenzionati o cosa stessero cercando».

Michele Soavi, nipote di Adriano che ha prodotto il docufilm della Rai Adriano Olivetti – La forza di un sogno, «un giorno stava girando alcune scene a Ivrea quando un anziano signore gli si avvicinò.

“Ero la guardia di Adriano” disse. L’uomo che di notte faceva avanti e indietro in giardino. “So che è stato assassinato”.

 

D’altronde, come ci ricorda Secrest, «l’omicidio in treno», nei corridoi delle carrozze dove non mancano contatti ravvicinati e indesiderati, «è un classico dei romanzi polizieschi».

«Dettaglio curioso», segnala infatti l’autrice, è che a quel tempo «la Cia sviluppò un’arma particolarmente maneggevole e perfetta per essere usata in un corridoio simile: una pistola che sparava dardi avvelenati», una tossina letale, inodore e insapore, difficilissima da rilevare in sede di autopsia, «studiata apposta per simulare un attacco cardiaco».

Ed è pur vero che durante la Guerra fredda l’attenzione era rivolta all’interesse nazionale e alla corsa agli armamenti. «L’IBM aveva beneficiato dei fondi governativi necessari per restare in vantaggio rispetto all’Unione Sovietica. In quel momento l’azienda stava lavorando a un sistema computerizzato di difesa aerea, con il vantaggio di poter accedere alle ricerche pionieristiche del MIT».

A detta di Meryle Secrest,

«è proprio la seconda morte a sollevare interrogativi su entrambe.»

Figlio di un diplomatico cinese presso il Vaticano, dal brillante esordio come giovane ingegnere e professore associato alla Columbia, Mario Tchou aveva assunto la guida dell’avanguardistico laboratorio voluto da Roberto Olivetti per investire in ricerca e sviluppo nel promettente campo dell’elettronica, che avrebbe poi prodotto l’Elea 9003, primo calcolatore elettronico Olivetti seguito a qualche mese di distanza dal primo computer a transistor della IBM.

Il 9 novembre 1961 Mario era atteso a Ivrea, per discutere di un’importante miglioria software per l’Elea 2003. «Il percorso più veloce per arrivare a Ivrea dal capoluogo lombardo prevedeva di passare sul tratto dell’A4 detto Milano-Torino e uscire a Santhià», spiega l’autrice ricostruendo la dinamica dei fatti su quel tratto di autostrada tristemente nota ai tempi come “corsia suicida”. L’auto su cui viaggiava Tchou, guidata dall’autista esperto Francesco Frinzi, era una nuovissima Buick Skylark. La ricostruzione ufficiale dell’incidente riporta che l’autista perse il controllo sbandando di lato e centrando un furgone proveniente dalla direzione opposta ma, come fa notare la Secrest, il solo testimone dell’incidente che uccise Mario risultò essere lo stesso autista ottantasettenne del camion.

Olivetti e il potere delle informazioni

Indagando sull’acquisizione della Underwood che avrebbe potuto mettere «l’azienda di Ivrea nella posizione unica, e allo stesso tempo paradossale, di società italoamericana pronta a vendere informazioni potenzialmente strategiche al nemico», scrive la Secrest, «ho chiesto a Elisa Montessori», la moglie di Mario, «se, secondo lei, il marito sapeva di poter violare dei segreti militari: ha risposto di sì».

 

«Dal punto di vista degli americani, una società statunitense stava per trasformarsi nella porta di accesso sovietica a segreti potenzialmente fondamentali.»

 

Se i movimenti di Tchou erano controllati, «cosa molto probabile, si era di certo saputo che nell’estate del 1961 aveva provato a entrare in Cina per proporre un accordo al Paese. Gli Stati Uniti potevano forse permettere che la cosa continuasse?».

 

Alla fine del 2015 Meryle Secrest contattò la Central Intelligence Agency, richiedendo un’intervista con lo storico dell’agenzia David Robarge. «Ho poi scoperto che Adriano, durante la Seconda guerra mondiale, aveva incontrato in Svizzera l’ex direttore dell’Agenzia Allen Dulles, e in seguito aveva intrattenuto con lui una vivace corrispondenza». Alcune di queste lettere sono state desecretate in base al Freedom Information Act. «Speravo di poter gettare nuova luce sul rapporto tra i due uomini, e che mi fosse concesso di ricostruire alcuni passaggi mancanti della storia. Con mia sorpresa, ho dovuto constatare che la mia richiesta era stata respinta, perché si trattava ancora di un argomento “sensibile”. Com’era possibile, ho chiesto, se ormai erano passati più di settant’anni?».

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