Un “club delle lettere” per rivelarsi l’uno all’altro con sincerità

Scritto da:
Redazione BookToBook
14 Gen 2022

S’assapora il gusto per la lettura e la condivisione, si coglie la potenza riparatrice della scrittura, vien quasi la tentazione d’ammutolire social e Whatsapp e comprare francobolli, una volta che ti metti a leggere Le lettere di Esther, quarantenne libraia di Lille che a un certo punto della sua vita, dopo la morte dell’amato padre con cui da vent’anni si scambiava missive per posta, decide di organizzare un laboratorio di scrittura epistolare. Rispondono in cinque all’annuncio pubblicato sul sito della libreria e diffuso da alcuni giornali locali.

«Vuoi imparare a dar forma ai tuoi pensieri, raccontare una storia e parlare delle tue emozioni? Iscriviti al mio laboratorio di scrittura epistolare. Non è richiesta la presenza e potrai partecipare comodamente da casa.»

La finzione narrativa entra di soppiatto nelle nostre case di lettori, si tinge di realtà, assume i contorni delle gioie e dei dolori quotidiani di cui abbiamo sentore ed esperienza diretta noi comuni mortali a cui parla tra le righe l’autrice francese Cécile Pivot, che con questo romanzo appena pubblicato da Rizzoli viene tradotta per la prima volta in Italia. I suoi personaggi sono tutto sommato persone normali; si respira un che di familiare e di fragile, di intimo e di umano in queste trecento pagine che si leggono d’un fiato perché le lettere spedite dai personaggi suscitano l’attesa, la curiosità di vedere come risponderà l’altro nel giro di qualche giorno, forse anche una settimana, perché qui si sta elogiando la lentezza, si sta recuperando il diritto a fermarsi e a pensare, a prendersi tutto il tempo necessario a riflettere, a guardarsi dentro, a scegliere le parole giuste con cui confessarsi, con cui cercare di capire.

Le lettere di Esther

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I personaggi de Le lettere di Esther

È vero che Le lettere di Esther, come recita il risvolto di copertina del libro, sono una celebrazione della forza delle parole, induce a soffermarsi volentieri, con leggerezza, su quelle parole tanto dure e aspre che troppo spesso evitiamo di pronunciare a voce e che però poi, se non dette, scavano da sotto e fanno danni; posate su un foglio bianco, invece, poco importa se con delicatezza o con schiettezza, se buttate giù d’istinto o soppesate nella notte, possono risultare salutari e terapeutiche nell’affrontare certe paralisi sentimentali, certe gabbie mentali, talvolta persino diventano risolutorie delle nostre ansie, della nostra rabbia, dei risentimenti e delle incomprensioni. Ogni personaggio del romanzo porta con sé un carico di emozioni sottaciute, di rimpianti e rimorsi, di sensi di colpa che nel corso della narrazione, via via che le lettere vengono scritte, spedite, ricevute e lette, si alleggerirà grazie al confronto e al dialogo, ai ricordi, ai dettagli tralasciati ma ripescati dalla memoria e dal lavorìo silenzioso della parola scritta. Ognuno confessa qualcosa a qualcun altro, tutti si ritrovano a parlare di sé e degli angoli bui della propria anima a perfetti sconosciuti, di cui decidono di fidarsi. Magia della scrittura.

“Da che cosa ti difendi?” è la prima domanda che Esther pone ai cinque partecipanti al laboratorio epistolare, che dovranno rispondere scegliendo un destinatario, un amico di penna, un confidente tra gli altri cinque, compresa Esther. Il laboratorio prende avvio il 31 gennaio 2019 in un ristorante di Parigi dove Esther riunisce Jeanne, Samuel, Jean, Juliette e Nicolas. Prima dell’incontro, preliminare all’avvio della corrispondenza, manda una mail a tutti, chiedendo loro di riflettere su quella domanda:

«“Da cosa ti difendi?”. Se ne avessero avuto voglia, avrebbero risposto brevemente di fronte agli altri. Mi piace questa domanda, perché sono convinta che tutti noi ci difendiamo da qualcosa. E anche perché lascia grande libertà a chi risponde. Si può essere evasivi, ricorrere a luoghi comuni oppure, al contrario, rivelare una parte intima di sé.»

Esther non è una scrittrice e non insegna, fa la correttrice di bozze specializzata in carteggi e la sua libreria a Lille si chiama C’est à Lire, dove ogni tanto organizza laboratori con alcuni autori del posto.

«Con un argomento come la scrittura epistolare, temevo di attirare solo vecchi sconsolati, che avrebbero approfittato dell’occasione per riesumare da un cassetto la loro carta da lettere ingiallita e snocciolare ricordi, senza preoccuparsi dello scambio con l’altro.»

Invece arriva Samuel, il più giovane tra i cinque iscritti, che vive ancora coi genitori, ha abbandonato gli studi, soffre per la morte del fratello e per il laboratorio si mette a scrivere sulle tovagliette di carta della brasserie dove lavora l’amico Ben. Le sue lettere saranno destinate a Jeanne, anziana signora vedova, ex insegnante di pianoforte, che lotta per il benessere degli animali, per la tutela dell’ambiente, contro le lottizzazioni edilizie. In una delle sue epistole a Samuel, per convincerlo a leggere libri, gli scrive:

«Leggere è una porta aperta sul mondo, la natura umana, i secoli passati e quelli a venire. È impossibile che non ci sia nessun argomento che ti interessi, nessun genere letterario che ti piaccia. La lettura ci apre le porte. Preferisco pensare che tu non abbia le chiavi.»

Jean, al contrario di Samuel, è un uomo d’affari continuamente in volo da un continente all’altro, ha successo e potere ma ha perso la vicinanza dei figli e, nel momento in cui decide di partecipare al laboratorio di Esther, non sente più né motivazione né adrenalina per continuare a macinare soldi. In uno dei suoi scambi epistolari con Esther, lei gli scriverà:

«La domanda che devi porti è questa: mi immagino a fare lo stesso mestiere per i prossimi quindici anni? Il piacere che provo a lavorare nella mia libreria e a passarci le mie giornate sarà sempre grande, tra dieci anni come tra venti. Non restarci male, ma quello che ti sta capitando è comune a molti. Sei sulla cinquantina, il tuo lavoro ti annoia e non sai come affrontare il futuro. Fare un salto nel buio o sopportare a testa bassa e andare avanti con rassegnazione? Perché abbiamo paura di trovarci di fronte a noi stessi? Rifiutiamo di affrontare il vuoto, l’inattività, le domande senza risposta. Dobbiamo avere un progetto a tutti i costi. Tuttavia, penso che questa “discesa nel vuoto”, come la chiami tu, sia un passaggio obbligato inevitabile per chi non sopporta più di stare dove sta e non sa ancora dove vuole arrivare. Concedersi del tempo senza avere paura non è semplice!»

Jean scrive anche a Nicolas, chef stellato e marito di Juliette, fornaia-pasticcera con due boulangerie, una a Parigi l’altra a Malakoff. Entrambi si sono iscritti al laboratorio, sono in crisi, si sono separati nonostante sia appena nata la loro prima figlia, Adèle; sperano di riuscire a mettere per iscritto quel che non riescono più a comunicare a voce. In una delle prime lettere che si scambiano, Nicolas racconta a Jean:

«Abbiamo vissuto insieme per sedici anni e adesso siamo separati. Per sempre, per un po’, non lo so. Ora mi difendo dai rimorsi. Faccio fatica a parlarne anche ai miei amici. Uno di questi giorni ti dirò di più. Mi chiedi di parlarti della mia vita privata visto che la tua è un disastro. Mi rallegra come prospettiva, mi sa che ci sarà da ridere… Se ci scriviamo per rimanere in superficie e non per parlare delle cose con franchezza, non mi interessa. Rischiamo di romperci le scatole.
Da quando Juliette se n’è andata, non cucino più come prima. Non riesco più a lavorare il morbido, il cremoso, il dolce. La crème fraîche mi disturba, il cioccolato mi lascia indifferente, i frutti rossi mi esasperano, lo zucchero m’infastidisce. Mi ispira l’acido, pure troppo. Uso e abuso di meravigliosi limoni di Sicilia, calamansi, mapi, cedri digitati e pompelmi giganti. Tutto deve essere aspro, come quello che mi succede, suppongo. Di questo passo, le mie due stelle andranno a farsi benedire.»

Scrittura, sostantivo femminile: memoir, narrativa, non-fiction

Una delle prime lettere di Juliette a Jeanne, invece, inizia così:

«Cara Jeanne, sai cos’è la depressione post-partum? Colpisce le donne che hanno da poco avuto un bambino. Anche gli uomini, ma più raramente. La difficoltà di essere madre, il volto oscuro della maternità, di cui si parla troppo poco. È la malattia che mi ha colpito dopo che ho avuto mia figlia. Non sono ancora in grado di parlarne. Se mi sforzo di ricordarmi gli avvenimenti, di posizionarli cronologicamente, di ripercorrere il mio lungo tracollo, ho paura di avvicinarmi troppo al fuoco, di restarne scottata. Però, posso provare a parlarti della malattia mantenendo una certa distanza, non della mia esperienza personale, ma di tutte le donne che ne soffrono, anche se ogni storia è cosa a sé. Forse, più avanti, riuscirò a scriverti quello che è successo a me. Se ci riesco, vuol dire che sarò riuscita a vincere un po’ la vergogna che mi paralizza. Sarà una bella vittoria, ma la strada è lunga.»

Le lettere di Esther celebra la forza delle parole

Le lettere di Esther è un inno all’ascolto e alla scoperta dell’altro così come di sé stessi perché, se ci provassi per davvero anche tu a rispondere alla domanda “Da cosa ti difendi?”, potresti ritrovarti a scrivere chissà cosa a chi, vero o inventato che sia. Dopotutto anche per Esther è stata, in fin dei conti, una scoperta:

«Niente è andato come avevo immaginato. Avrei dovuto intuirlo dopo il nostro incontro a Parigi, l’unica volta in cui ci siamo visti di persona. Non si erano iscritti al mio laboratorio di scrittura epistolare perché li aiutassi a esprimersi meglio. O almeno, non soltanto. Quel laboratorio era la loro ancora di salvezza, ciò che li avrebbe salvati dall’incomprensione, da un lutto che non stavano affrontando, da una vita in stallo, da un amore messo a dura prova. Quando me ne sono resa conto ormai era tardi, ero già sprofondata nell’intimità delle loro storie. A dirla tutta, però, dopo la morte di mio padre, non è stato anche per me un’ancora di salvezza?»

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