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L’isola degli alberi scomparsi è la voce del nostro Pianeta malato

«Tanti ricordi fa, al capo estremo del mar Mediterraneo, c’era un’isola talmente azzurra e bella che i molti viaggiatori, pellegrini, crociati e mercanti che se ne innamoravano non volevano più ripartire, oppure cercavano di rimorchiarla con funi di canapa fino al loro Paese. Leggende, forse. Ma le leggende stanno lì a raccontarci quel che la storia ha dimenticato».

Sono le prime righe de L’isola degli alberi scomparsi, il nuovo romanzo di Elif Shafak, la scrittrice turca più conosciuta e apprezzata al mondo. I suoi romanzi, tradotti in 54 lingue, parlano un lessico universale fatto d’impegno civile e di coraggio, di battaglie contro i totalitarismi e le discriminazioni etniche e di genere, di denuncia della condizione delle donne laddove il patriarcato e la misoginia la fanno da padroni, di appelli al dialogo e alla fratellanza in un’epoca, qual è la nostra, lacerata da populismi e intolleranza, divisa da muri eretti dalla propaganda e dai fanatismi.

In Turchia Elif Shafak non può più tornare, dopo che nel 2006 venne accusata di aver infranto l’art. 301 del codice penale turco, che punisce l’offesa all’identità turca per aver parlato del genocidio armeno nel libro che l’ha resa famosa, La bastarda di Istanbul. Un successo, nonostante tutto, che le ha permesso di continuare a scrivere e a raccontare, attraverso la finzione della letteratura o la lucidità della testimonianza.

Per «la forza delle donne nella ricerca di libertà e felicità in paesi in cui viene negata e soffocata da sfruttamento, emarginazione, violazione dei diritti», nel 2020 Elif Shafak ha vinto il premio Lattes Grinzane con I miei ultimi 10 minuti e 38 secondi in questo strano mondo, che Rizzoli ha portato in Italia nel 2019 e che è stato tra i finalisti del prestigioso Booker Prize, a conferma di un’attenzione e di un rispetto a livello internazionale nei confronti di una scrittrice che innegabilmente riesce a parlare, attraverso i libri, per conto di chi non ha voce.

«Agli immigrati e agli esuli in ogni dove, agli sradicati, ai ri-radicati, ai senza radici. E agli alberi che ci siamo lasciati alle spalle, radicati nei nostri ricordi…»

è la dedica che la scrittrice compone in esergo de L’isola degli alberi scomparsi. È Cipro, l’isola dalle acque turchine e dal profumo di gardenia, a far da scenario al narrare dell’autrice di un’esperienza individuale e collettiva devastante, che appartiene alla storia e alla memoria di popoli tra Oriente e Occidente: l’abbandono forzato della propria casa e della propria patria di migliaia di esuli, erranti oggi come ieri lungo i confini del mondo.

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Spiega Elif Shafak:

«Quando ho lasciato Istanbul per l’ultima volta, molti anni fa, non sapevo che non sarei più tornata. Da allora mi chiedo che cosa avrei portato con me, in valigia, se l’avessi saputo: un libro di poesie, una piastrella di ceramica smaltata di turchese, un ninnolo di vetro, una conchiglia di strombo portata dalle onde, il grido di un gabbiano nel vento… Col tempo, ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto portare con me un albero, un albero mediterraneo con tutte le radici, ed è stata questa immagine, quest’idea, questa improbabile possibilità, a dare forma alla storia.»

Elif ha dovuto lasciare Istanbul, i protagonisti di questa storia hanno dovuto lasciare Cipro: Kostas, greco e cristiano, e Defne, turca e musulmana, a Nicosia s’incontrano nell’estate del 1974 sotto una pianta di fico e s’innamorano pochi mesi prima dello scoppio della guerra civile tra turchi e greci, tra cristiani e musulmani. Le nazioni dibattono sulla “questione cipriota” e intanto sull’isola «crocevia fra tre continenti – Europa, Africa, Asia – e il Levante», scoppiano bombe e si perdono padri e fratelli fucilati per strada e rischiano ogni giorno di scomparire pure gli innamorati, vittime innocenti del destino di appartenere a famiglie di religioni contrapposte o della feroce intolleranza verso l’omosessualità.

«Alla fine di quell’estate interminabile si contarono quattromila e quattrocento morti, più migliaia e migliaia di dispersi. Circa centosessantamila greci che abitavano a nord si trasferirono a sud, e circa cinquantamila turchi fecero il percorso inverso. Le persone divennero profughe in patria: le famiglie subirono lutti, abbandonarono case, paesi e cittadine; vecchi amici e buoni vicini presero strade diverse e talvolta si tradirono a vicenda. Senz’altro sarà tutto scritto nei libri di storia, anche se ciascuna parte racconterà solo la propria versione; narrazioni che si contrappongono ma non si sfiorano mai, come rette parallele che non possono incrociarsi.
Ma su un’isola afflitta da anni di violenza interetnica e atrocità inaudite non furono solo le persone a soffrire: è toccato anche a noi piante, e pure gli animali hanno patito stenti e dolori man mano che sparivano i loro habitat. Solo che di cosa è successo a noi non glien’è mai importato niente a nessuno.»

Elif Shafak ci invita a riflettere sull’arroganza e sulla violenza degli esseri umani nei confronti dell’ambiente

A parlare è la pianta di fico, coprotagonista di questa storia che alla voce delle donne e degli uomini vittime di atrocità etniche e di intolleranza di genere alterna il grido d’allarme per una natura che sta soffrendo da decenni per colpa dell’uomo. Quella pianta, rinata da una talea trafugata da Kostas prima di abbandonare Cipro, ritroverà la luce nel giardino dietro la casa londinese dov’è cresciuta Ada, la figlia di Kostas e Defne, e da dove parla a tutti noi.

Elif Shafak è l’autrice da leggere se stai per partire per la Turchia

Elif Shafak, intellettuale che nel 2020 ha firmato per Rizzoli Non abbiate paura. Sfidare l’intolleranza sarà il nostro atto di coraggio. Per restare uniti in un mondo diviso, ci invita ora a riflettere anche sull’arroganza e sulla violenza degli esseri umani nei confronti dell’ambiente, di flora e fauna maltrattati, soggiogati, sfruttati, in alcuni casi persino costretti all’estinzione.

Elif Shafak sa usare parole che non scoloriscono col passare del tempo e delle stagioni. In Non abbiate paura scriveva:

«Le persone che avrebbero molto da dire, una storia unica da raccontare, spesso non lo fanno perché temono che le loro parole cadano nel vuoto. Si sentono escluse dal potere politico e, in larga misura, dalla partecipazione alla vita pubblica. Se anche urlassero le loro rimostranze dai tetti di Westminster – o di Bruxelles, Washington o Nuova Delhi – dubitano che otterrebbero il minimo impatto sulle scelte politiche. Non solo l’amministrazione e l’autorità, il potere e la ricchezza, ma anche i dati e la conoscenza sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre un numero crescente di cittadini si sente escluso, invisibile prima ancora che dimenticato. Con l’acuirsi del loro senso di delusione, di pari passo aumenta la sfiducia anche nelle istituzioni più fondamentali. Più della metà delle persone che vivono nelle democrazie affermano oggi che la loro voce viene ascoltata “di rado” o “mai”. Se questo è lo stato d’animo generale nei paesi relativamente democratici, immaginiamo a che punto possa arrivare questa percentuale nei regimi autoritari, dove non c’è nessuna trasparenza e dall’alto viene imposta una narrazione unica, che soffoca qualunque forma di dissenso. Prese tutte insieme, è un numero enorme di persone senza voce. E l’aspetto più paradossale è che tutto ciò accade in un momento in cui noi esseri umani, indipendentemente da razza, genere, religione, classe o etnia, dovremmo essere più connessi, empatici e liberi che mai, con molte più opportunità di esprimerci di quante i nostri nonni sognassero, vista la proliferazione delle piattaforme digitali e multimediali. Com’è possibile, allora, che nell’epoca dei social media che avrebbero dovuto dare a tutti voce in capitolo, così tanti continuino a sentirsi senza voce? Essere privati della voce significa essere privati della capacità di intervenire nella propria vita.»

Ne L’isola degli alberi scomparsi Elif Shafak dà voce al nostro Pianeta malato e parla ai giovani, alla generazione dei Fridays For Future che, a leggere il romanzo, potrebbe ben ritrovarsi nell’intelligenza e nella consapevolezza di Ada. Dalla sua determinazione a scoprire il passato della famiglia si snoderanno i passaggi cruciali e il messaggio di speranza del romanzo, che affronta il tema squisitamente letterario delle generazioni che si scontrano, del difficile equilibrio fra modernità e tradizione, fra credenze, leggende e scienza, del passato che prima o poi torna a galla e delle famiglie che nascondono segreti.

«Se le famiglie, come si dice, sono come le piante, strutture arborescenti con radici intricate e singoli rami che sporgono ad angolazioni sgraziate, i traumi famigliari sono come la spessa resina trasparente che gocciola dai tagli nella corteccia: colano per generazioni.

Trasudano pian piano, in un flusso così lento da essere impercettibile, e avanzano nello spazio e nel tempo fino a trovare un anfratto in cui fermarsi e coagulare. Il percorso di un trauma ereditario è casuale; a qualcuno toccherà, ma non si sa mai a chi. Tra i figli che crescono sotto lo stesso tetto, alcuni ne sono colpiti più di altri: sarà capitato anche a voi di conoscere due fratelli che hanno avuto all’incirca le stesse occasioni, eppure uno è più malinconico e introverso dell’altro, no? Succede.»

Il rapporto delicato e traumatico tra Kostas, botanico e uomo di scienza, e la figlia sedicenne Ada parla il lessico della natura, che la figlia ascolta grazie alla sua sensibilità (e preoccupazione) per l’ambiente. Nelle pagine conclusive Ada chiede: «Papà, hai presente quando mi dicevi sempre che, mentre si guarda un albero, nessuno vede mai la stessa cosa? Ci ripensavo l’altro giorno, ma non sono riuscita a ricordare di preciso com’era la faccenda». Risponde il padre:

«Mi sono fatto quest’idea: alcuni si trovano davanti a un albero e la prima cosa che notano è il tronco. Sono quelli che danno la precedenza all’ordine, alla sicurezza, alle regole, alla continuità. Poi c’è chi fa caso ai rami, prima di ogni altra cosa; questi bramano il cambiamento, la sensazione di libertà. E poi ci sono quelli che sono attratti dalle radici, anche se sono nascoste sottoterra: persone che hanno un profondo attaccamento emotivo al loro retaggio, identità, tradizioni…»

«E tu che tipo sei, dei tre?»