Il giocatore di scacchi di Maelzel. Note a margine di Flavio Santi

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Redazione BookToBook
09 Giu 2021

Non c’è giallo perfetto senza alta tensione dalla prima all’ultima pagina, non c’è partita a scacchi senza colpi di scena dalla prima all’ultima mossa. La suspense corre sul filo della pagina così come sulla scacchiera e in entrambi i casi le certezze si sgretolano di fronte al destino, alla fortuna o alla ragione che, in un alternarsi di intuizioni e deduzioni, malefici della sorte e coincidenze fatali smontano e rimontano, con l’incedere degli eventi e l’azione dei personaggi, ipotesi, credenze e strategie per condurti col fiato sospeso a una conclusione che forse mai avresti immaginato.

Il giocatore di scacchi di Maelzel, pubblicato per la prima volta sul “Southern Literary Messenger” nell’aprile del 1836 e ora riproposto da BUR Rizzoli nella collana dei Classici moderni – con l’introduzione dello scrittore Luca Crovi, il testo inglese a fronte e la traduzione di un altro scrittore, Flavio Santi – è l’ingegno applicato al mistero: chi scrive è nientemeno che Edgar Allan Poe, maestro del genere, e la materia di cui scrive, al centro di un vero e proprio caso investigativo, è tanto vera da esser passata alla storia.

Il giocatore di scacchi di Maelzel

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La leggenda dell’automa in grado di vincere una partita di scacchi

Si narra infatti che nel 1769 il barone Wolfgang von Kempelen, un aristocratico di Pressburg in Ungheria, creò, su sollecitazione dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria la cui passione per la magia e il magnetismo era nota, un automa in grado di battere un avversario d’umana natura al gioco degli scacchi. La stessa sovrana per prima provò a sfidarlo alla corte di Vienna, seguita da altrettanto regali ed eminenti autorità quali Benjamin Franklin, Napoleone, Federico il Grande, Caterina di Russia e Luigi III d’Inghilterra.

La strana creatura dalle sembianze umane e dall’abbigliamento orientaleggiante, con un vistoso turbante a coprirne il capo da cui il soprannome “il Turco”, sedeva dietro un tavolo con al centro una scacchiera; frontalmente al pubblico, la massiccia scrivania presentava una serie di sportellini e cassetti, che durante le partite venivano aperti e richiusi per mostrare che nessun trucco e nessuna mano si celava dietro l’incredibile marchingegno, destinato a diventare celebre in tutto il mondo quando il barone lo cedette, insieme ai suoi segreti meccanismi, all’inventore tedesco Johann Nepomuk Maelzel, che lo esibì in uno spettacolo itinerante lungo l’Europa e fin negli Stati Uniti d’America. È qui che entra in scena Edgar Allan Poe. Incuriosito da tanto clamore suscitato nei teatri e sui giornali da un’invenzione che divideva l’opinione pubblica tra creduloni e diffidenti, lo scrittore americano andò a vederlo di persona, nel dicembre del 1835 a Richmond:

«È assai probabile che nessuno spettacolo di tal fatta abbia mai acceso così tanta attenzione nell’opinione pubblica quanta il Giocatore di scacchi di Maelzel. Ovunque si esibisse, esso è stato oggetto di grande curiosità da parte di tutte le persone amanti del più puro speculare & ragionare. Eppure, la questione del suo modus operandi è tuttora aperta.»

Poe, che sarebbe passato a sua volta alla storia come il primo scrittore a introdurre la “storia poliziesca” in letteratura, non poteva certo condividere l’idea che l’automa fosse una creatura dai poteri diabolici, come sembravano credere in molti.

«Solo chi sa felicemente barare con le parole non può tollerare che vengano truccati i fatti, gli accadimenti materiali»

scrive nell’introduzione al libro Luca Crovi, che per la collana BUR Nero ha curato l’antologia L’occhio dell’assassino. Un viaggio nella mente criminale nei racconti di 20 maestri, in arrivo in libreria a metà giugno. «Poe sapeva che per scrivere una buona opera di fiction la realtà andava reinventata e trasformata in qualcosa di fantastico. Nel caso della sua analisi sul giocatore di scacchi di Maelzel, invece, non gli era permesso inventare nulla, ma doveva indagare e chiarire perché era consapevole che non c’era niente di magico in quell’automa e che il trucco c’era anche se non si vedeva. Bastava solo mostrarlo una volta per tutte. Fotografandolo Poe sapeva benissimo che la magia della meraviglia sarebbe svanita per sempre perché “è tipico della perversità della natura umana respingere ciò che è ovvio e a portata di mano per ciò che è remoto ed equivoco”».

«La scacchiera è il mondo, i pezzi sono i fenomeni dell’universo, le regole del gioco sono le leggi della natura e l’altro giocatore è nascosto a noi»

sono le parole di un grande filosofo e biologo, Thomas Huxley, riprese nel finale de La regina degli scacchi, mini-serie Netflix tratta dal romanzo di Walter Tevis The Queen’s Gambit con una protagonista dal riuscito eco letterario, in fuga dai propri demoni tanto quanto lo fu Edgar Allan Poe.

Sull’onda del successo mondiale della fiction che, diretta da Scott Frank e interpretata da Anya Taylor-Joy nel ruolo di Beth Harmon, si è avvalsa della consulenza del campione di scacchi russo Gary Kasparov, abbiamo riletto il gioco degli scacchi e il genio di Edgar Allan Poe in compagnia di un suo convinto estimatore, Flavio Santi, scrittore giallista, traduttore di grandi classiciDracula, Bartebly lo scrivano, Flatlandia, La lettera scarlatta, Tenera è la notte – che ci racconta del lavoro fatto con Il giocatore di scacchi di Maelzel. Un intrigo, quello fra scrittori e (bravi) traduttori, che spiega in parte perché i classici non passano mai di moda.

Il gioco degli scacchi e il genio di Edgar Alla Poe secondo Flavio Santi

«Non passano mai di moda innanzi tutto perché i grandi scrittori del passato hanno inventato i meccanismi narrativi, universali, con cui scriviamo i romanzi oggi e con cui sono costruite le fiction tv. Italo Calvino diceva che a ogni rilettura un classico ti dice sempre qualcosa di nuovo. Così succede con la traduzione, che è una rilettura continua», ci spiega Flavio, 48 anni appena compiuti e un amore per la traduzione che dura dai tempi del liceo, «quando già mi divertivo a tradurre le versioni di latino e greco. Sono nato e cresciuto in una zona di confine dove si parlava il dialetto friulano e dove coabitano e interagiscono più lingue».

Ne Il giocatore di scacchi di Maelzel coabitano diversi stili e linguaggi: l’inglese secco, conciso e scandito si mescola alla precisione metodica e quasi maniacale del lessico scientifico, enfatizzato dai latinismi e dai francesismi, che Flavio ha scelto di mantenere per ribadire quel gusto barocco per l’esagerazione, «necessaria a ben ritrarre la verità stessa», come spiegò lo stesso Poe e che in pagina flirta con la descrizione minuziosa dei meccanismi magici che apparentemente muovono il Turco. Sembra quasi di essere nella stanza di un esperto anatomopatologo chiamato a risolvere un cold case di difficile soluzione.

«Quando l’Automa sta per muovere una pedina, si può osservare un chiaro movimento appena sotto la spalla sinistra, movimento che scuote lievemente il tessuto che copre la parte anteriore della stessa spalla. Questo movimento precede invariabilmente, di circa due secondi primi, il movimento del braccio in questione – tale braccio non si muove mai, in nessun caso, senza questo movimento preparatorio della spalla. Adesso supponiamo che tocchi all’avversario muovere la pedina. Dopodiché Maelzel esegue come al solito il corrispondente movimento sulla scacchiera del turco. Ed ecco l’avversario osservare da vicino l’Automa, finché non nota il sussulto della spalla.»

Il giocatore di scacchi di Maelzel

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Poe ci descrive passo a passo lo spettacolo – l’apertura dei singoli scomparti della scrivania, lo sportello 1, lo sportello 2, lo sportello 3, i cassetti e poi le rotelle e gli ingranaggi – in un crescendo d’investigazione e con un effetto generale di tridimensionalità «che infatti mi ha spinto, a un certo punto della traduzione», ci dice Flavio, autore dei due gialli Mondadori La primavera tarda ad arrivare e L’estate non perdona con protagonista l’ispettore friuliano Drago Furlan, «a ricercare in rete i disegni che ritraggono il Turco. Leggevo, confrontavo le descrizioni di Poe con le immagini e traducevo. È stato molto divertente, sembrava di giocare con Poe e col Turco, consiglio anche ai lettori di farlo».

«Quando la macchina viene girata a favore di pubblico perché si possa esaminare la schiena del turco, e quando l’abito viene alzato per mostrare le porticine sulla schiena & la coscia, l’interno appare pieno zeppo di meccanismi. Osservando attentamente, mentre l’Automa viene spostato, vale a dire quando tutta la macchina si muove sulle rotelle, pare che certe componenti cambino forma & posizione in maniera troppo abnorme per pensare a una mera questione di prospettiva.»

«Una cosa bella del lavoro di traduttore è lo studio: ne traduci uno ma intanto ne leggi molti altri per prepararti. Prima di affrontare questa traduzione ho riletto Poe e i racconti in cui torna il personaggio di Auguste Dupin, che qui è citato, e ho studiato la celebre traduzione di Charles Baudelaire, che è molto letterale, molto pulita e che mi ha spinto nella direzione di una traduzione più libera e più contemporanea. Fino a cinquant’anni fa avevamo un’idea un po’ meccanica della traduzione, ma la vera sfida è la reinterpretazione del testo originale. Quando traduci, rileggi in profondità e offri una tua interpretazione», ci ricorda Flavio, che per Treccani ha scritto un pezzo piacevolissimo sulla traduzione dei titoli delle opere letterarie.

«Il traduttore è uno scrittore che intrattiene un rapporto con l’autore che richiama la fisica dei vasi comunicanti. Gli illuministi parlavano di genio della lingua: nessuna tecnologia avanzata come Google Translator potrà mai sostituire il senso critico, il gusto, il sense-detector, il rilevatore dei sensi più profondi del testo originale che la mente umana può esercitare.»

Corre una sottile linea rossa, a quasi duecento anni dalla prima pubblicazione, che lega le intenzioni di Poe di smascherare un imbroglio bell’e buono alle riflessioni di oggigiorno su cosa è vero e cosa è falso di tutto quel che leggiamo e vediamo, tra fake news, algoritmi e intelligenza artificiale. «È quasi un grande saggio sociologico che, in anticipo sui tempi, smonta le fake news con la sola forza della logica», nota Flavio, mentre quel “noi” scelto da Poe come voce narrante ci viene incontro come una specie di intelligenza collettiva a risvegliarci dall’incantesimo.

«Tentando noi stessi una spiegazione dell’Automa, si cercherà, in primis, di illustrare il funzionamento delle varie operazioni, e quindi si descriverà, seppur in breve, la natura delle osservazioni da cui abbiamo ricavato i nostri risultati.»

Il giocatore di scacchi di Maelzel è un testo ottocentesco, «quindi in qualche modo dovevo far sentire al lettore le sue origini lontane. Da qui la scelta, per esempio, di introdurre l’& commerciale per dare una patina d’antichità e di conservare i termini in latino, che rievocano la tradizione filosofica medievale. D’altra parte, se il testo originale è eterno, cristallizzato, la traduzione è legata alla lingua che si parla e si scrive in un determinato momento. Si sta sempre sul filo come un equilibrista, bisogna rispettare l’autenticità del testo senza mai sovrapporsi alla voce dell’autore, ma neppure appiattirsi sotto il diktat della fedeltà, che di fatto è impossibile mentre è possibile essere leali, anche perché il passaggio da una lingua all’altra comporta necessariamente la perdita di alcuni elementi come per esempio i suoni della lingua di partenza, che vanno resi in qualche altro modo nella lingua di arrivo». Il giocatore di scacchi di Maelzel è intriso di suoni, Johann Nepomuk Maelzel fu anche l’inventore del metronomo e Poe ci descrive l’automa animandolo dei cigolii e scricchioli e sfrigolii che provengono da sotto la scacchiera e che partecipano al mistero e alla suspense.

«A ogni movimento del turco si sente il rumore dei meccanismi. Durante il corso della partita, l’Automa fa roteare ogni tanto gli occhi, come se studiasse la scacchiera, scuote la testa e pronuncia, se necessario, la parola “échec” (scacco).»

«Tengo molto alla musicalità dei testi che scrivo e traduco e difatti, una volta terminata la traduzione di Poe, ho chiesto un parere a Tommaso Ragno», attore di teatro di lungo corso, celebre per i suoi ruoli in fiction di successo come Il miracolo di Niccolò Ammaniti e la quarta stagione di Fargo, e in film tanto attesi quanto il nuovo di Nanni Moretti, Tre piani, tratto dall’omonimo romanzo di Eskol Nievo. «Tommaso è un amico, ha letto la mia traduzione e mi ha detto che funziona la rilettura ad alta voce, che è una prova che temo molto», ammette Flavio, alla sua prima traduzione di Poe, ancora più impegnativa essendo un’edizione con testo originale a fronte, il che equivale, per un traduttore, a mettersi letteralmente a nudo di fronte al lettore. «La scelta della casa editrice di pubblicare il testo a fronte rende senz’altro ancora più interessante questo libro, che è curioso anche perché mentre lo leggi si trasforma in una specie di partita a scacchi fra scrittore e lettore e fra traduttore e lettore».

«Dalla disposizione dei pezzi in un determinato momento del gioco risulta impossibile prevedere una successiva disposizione degli stessi.»

Rispetto al Poe più noto, Il giocatore di scacchi di Maelzel può sembrare una sua opera insolita, «ma se ne discosta soltanto apparentemente perché qui ritroviamo, come in altri suoi racconti, la tensione tra vita e morte», nota Flavio, che di sé dice di essere “una specie di giocatore di scacchi”. «Gli scacchi sono una grande metafora dell’esistenza e non è un caso se “scacco macco” significa “il re è morto”, è la fine che incombe, la suspense, non sai mai come va a finire e Poe è lo scrittore che ha inventato il genere investigativo. Il Turco appartiene a una vera e propria tradizione narrativa legata agli scacchi, penso a La novella degli scacchi di Stefan Zweig o a La viariante di Lüneburg di Paolo Maurensig, a Il giocatore invisibile di Giuseppe Pontiggia o ancora a una mia piccola fissazione, un’opera sconosciuta ai più, una vera chicca del genere, l’unico poemetto in latino rinascimentale sul gioco degli scacchi, Scacchia Ludus di Girolamo Vida, che lo scrisse all’inizio del Cinquecento». Uomo di lettere e di chiesa, Vida immaginò una partita a scacchi tra Apollo e Mercurio durante il banchetto nuziale tra la Terra e Oceano, il quale invita i due a sfidarsi al gioco, alla presenza degli dei dell’Olimpo. La partita si concluderà con uno scacco matto e con la vittoria di Mercurio, che donerà la scacchiera alla ninfa Scacchide insegnando a lei, e a noi umani imperfetti, il gioco degli scacchi.

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