Il sussurro delle api: cosa aspettarsi dalla scoperta letteraria dell’anno

Scritto da:
Redazione BookToBook
19 Giu 2020

Caro lettore, avere la possibilità di parlare di scoperte letterarie, esordi imperdibili e libri dell’anno è sempre un piacere. Oggi ti suggeriamo la scoperta letteraria di Penguin Random House del 2019 che ha ricevuto un’accoglienza entusiastica di critica e pubblico. Si tratta de Il sussurro delle api, ambientato nel Messico di inizio Novecento, nella campagna di Linares, tra campi fertili e colline.
L’hacienda dei Morales è qui da generazioni e con lei anche Reja, un’anziana nutrice che trascorre le sue giornate all’ombra di un patio, su una sedia a dondolo con cui forma ormai un tutt’uno, tanto la sua pelle bruna si confonde con il colore del legno.

E Simonopio è un bambino magico. O dannato. Lo ha trovato Reja ancora in fasce, una mattina in cui vincendo la sua leggendaria immobilità ha camminato fino al ponte sotto il quale il piccolo era stato abbandonato, in un viluppo di stracci e cosparso da un nugolo di api, inoffensive sulla sua pelle, che non lo lasceranno mai.

«L’arrivo di Simonopio in famiglia fu un evento che segnò tutti irrimediabilmente. Uno spartiacque. Più avanti si trasformò nella differenza tra la vita e la morte, anche se ce ne rendemmo conto solamente molto tempo dopo, guardandoci indietro in una lontana retrospettiva.»

Il sussurro delle api

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Sono gli anni della Rivoluzione messicana, i latifondisti hanno vita difficile e le terre sono in pericolo, per chi le possiede. La famiglia Morales non sarà risparmiata dalla violenza della Storia, ma sopravvivrà, guidata da Simonopio, il bambino che non riesce a parlare perché ha un buco al posto della bocca, ma che nel suo silenzio ha imparato ad ascoltare, a riconoscere dal comportamento delle api le oscillazioni della natura e, attraverso l’ascolto, impara anche a salvare se stesso e gli altri.

«Ai piedi immobili della nana Reja, che sulla sua sedia a dondolo guardava sempre verso il sentiero che li aveva riuniti, Simonopio conquistò il silenzio.»

Il sussurro delle api è l’epopea di una famiglia in cui le vicende storiche si intrecciano agli accadimenti privati e dove lo sfondo messicano, di cui il piccolo Simonopio rappresenta lo spirito vitale, è uno scenario di grande potenza visiva. Mentre la Spagnola falcidia vittime, si infrangono anche le tradizioni arcaiche contro l’onda di un tempo nuovo che sembra voler trascinare via ogni certezza.

«Sentì l’impulso di dirgli non ti allontanare troppo, Simonopio, rischi di perderti tra le montagne e di essere divorato dagli orsi, ma si trattenne. In quell’attimo di chiaroveggenza, comprese che, per Simonopio, il pericolo di essere divorato era scomparso nelle prime ore di vita e che, se anche avesse deciso di andare a piedi fino alla fine del mondo, non avrebbe mai perso la rotta.»

Nel leggere le pagine di Sofía Segovia non riusciamo a non sentire, forte, la voce della grande letteratura latinoamericana e ad assaporarne ancora la bellezza.

Leggi un estratto da Il sussurro delle api

Bambino blu, bambino bianco

In quell’alba d’ottobre, il vagito del neonato si mescolava al rumore del vento fresco che soffiava tra gli alberi, al canto degli uccelli e al saluto degli insetti della notte.

Usciva fluttuando dalla fitta boscaglia dei monti, ma si spegneva pochi metri dopo, come se una sorta di stregoneria gli impedisse di andare alla ricerca di un orecchio umano.

Per anni si sarebbe vociferato di come don Teodosio, mentre andava a lavorare in una vicina tenuta, dovesse per forza essere passato davanti al povero piccino abbandonato senza sentir nulla, e di come Lupita, la lavandaia dei Morales, avesse attraversato il ponte che la portava a La Petaca alla ricerca di un filtro d’amore senza notare niente di strano: se me ne fossi accorta, l’avrei comunque preso, perché sarà anche stato orribile, ma non si può pensare di abbandonare in quel modo un neonato, lasciandolo lì a morire da solo, avrebbe detto lei quella sera, a chiunque fosse disposto ad ascoltarla.

E proprio quello era il mistero. Chi, nei dintorni, di recente, aveva mostrato i segni di una gravidanza inopportuna?

A chi apparteneva quel bambino sfortunato? In paese indiscrezioni di quel tipo si diffondevano più veloci di un’epidemia di morbillo, e bastava che lo sapesse una persona perché lo sapessero tutti.

E tuttavia, in questo caso, nessuno sapeva niente.

Circolavano teorie di ogni sorta, ma quella che più seduceva l’immaginario collettivo era che il neonato appartenesse a una delle streghe della Petaca che, come era ben noto a tutti, si dedicavano liberamente ai piaceri della carne e che, nel ritrovarsi un bambino così deforme e strano – punizione dell’Altissimo o del diavolo, vai a sapere – l’aveva abbandonato al suo destino buttandolo sotto il ponte.

Nessuno seppe mai quante ore fosse rimasto lì, solo, nudo e affamato sotto il ponte. Nessuno si spiegava come fosse sopravvissuto alle intemperie senza dissanguarsi attraverso il cordone ombelicale che non era stato legato, o senza che lo divorassero i ratti, i rapaci, gli orsi o i puma che abbondano tra quei monti.

E tutti si chiedevano come avesse fatto a trovarlo la vecchia nana Reja, ricoperto da un manto di api vive.

Reja aveva deciso di passare il suo tempo eterno in un solo luogo, fuori da una delle baracche che fungevano da magazzino nella tenuta La Amistad, un fabbricato semplice, senza finestre, identico a vari altri annessi costruiti dietro la casa principale così che rimanessero nascosti agli occhi di chi giungeva in visita. L’unica cosa che distingueva quella baracca dalle altre era la tettoia che permetteva alla vecchia di starsene all’aperto sia d’inverno che d’estate.

Non era che una fortunata coincidenza: Reja non aveva scelto quel luogo per ripararsi dagli elementi, bensì per la vista di cui poteva godere e per il vento che, attraversando il labirinto di montagne, scendeva fin lì per lei.

Erano passati molti anni da quando la vecchia aveva scelto il suo posto, perciò, oltre a Reja, tra i vivi non restava testimone del giorno in cui la sua sedia a dondolo era arrivata lì o del momento in cui lei aveva cominciato a starci sempre seduta.

Ora tutti pensavano che non si alzasse mai e suppone-vano fosse per colpa dell’età – che nessuno era in grado di precisare –, delle ossa che ormai non la sostenevano e dei muscoli che non rispondevano. Perché, quando spuntava il sole, la vedevano già lì seduta, a dondolarsi dolcemente, spinta più dal vento che dai piedi. E di sera nessuno la vedeva scomparire, essendo tutti occupati a prepararsi per la notte.

Anni e anni trascorsi sulla sedia a dondolo fecero sì che la gente del posto dimenticasse la sua storia e la sua persona: Reja era diventata parte del paesaggio e aveva messo radici nella terra su cui si dondolava. Il suo corpo era diventato legno e la sua pelle una corteccia dura, scura e piena di solchi.

Quando le passavano davanti, nessuno le rivolgeva un saluto, proprio come non si saluta un vecchio albero moribondo.

Certi bambini si fermavano a guardarla da lontano dopo aver percorso il breve tragitto dal paese alla ricerca di quella leggenda, e ogni tanto qualcuno di loro trovava il coraggio di andarle vicino per assicurarsi che fosse davvero una donna in carne e ossa e non un pezzo di legno intagliato.

E si rendevano conto che in quella corteccia c’era vita quando, senza nemmeno il bisogno di aprire gli occhi, Reja propinava allo spavaldo avventuriero un colpo di bastone ben assestato.

Non intendeva essere la curiosità di nessuno; preferiva fingere di essere di legno. Preferiva che la ignorassero.

Sentiva che alla sua età, con tutto quello che i suoi occhi avevano visto, le sue orecchie ascoltato, la sua bocca detto, la sua pelle sentito e il suo cuore sofferto, aveva dato più che a sufficienza per potersi permettere di rifiutare chiunque.

Non capiva come mai fosse ancora viva né cosa stesse aspettando per andarsene, visto che ormai non serviva più a nessuno e il suo corpo si era disseccato; ecco perché preferiva non vedere e non essere vista, non sentire, non parlare e percepire il meno possibile.

Benché non riuscisse ancora a dominare del tutto questo aspetto dei suoi sensi.

C’erano alcune persone che Reja tollerava di avere attorno; tra queste, l’altra levatrice, Pola, che come lei si era lasciata alle spalle i suoi giorni migliori da un pezzo.

Tollerava anche il piccolo Francisco perché in passato, quando lei ancora si permetteva di sentire, gli aveva voluto profondamente bene, ma sopportava a malapena sua moglie Beatriz o le sue figlie. La prima perché non le andava di far entrare persone nuove nella sua vita, le seconde perché le trovava fastidiose.

Non c’era nulla di cui avessero bisogno e nulla che lei potesse offrire loro, perché la vecchiaia l’aveva lentamente esentata dai suoi compiti di domestica. Erano anni che non partecipava alla gestione della casa, e così aveva iniziato a farsi parte della sua sedia a dondolo. E ormai lo era a un punto tale che non si notava nemmeno più dove finiva il legno dell’una e iniziava quello dell’altra.

Prima dell’alba, Reja camminava dalla sua stanza fino alla baracca, dove l’aspettava la sua sedia sotto la tettoia, e poi chiudeva gli occhi per non vedere e le orecchie per non sentire. Pola le portava la colazione, il pranzo e la cena, che quasi non assaggiava perché il suo corpo non aveva bisogno di grande nutrimento. Si rialzava molto più tardi, soltanto quando dietro le palpebre chiuse le lucciole le ricordavano la notte, e quando iniziava a sentire le spinte e i pizzicotti della sedia a dondolo, che si stancava molto prima di lei di quella loro costante vicinanza.

A volte apriva gli occhi durante il tragitto che la riportava al letto, sebbene non avesse bisogno di farlo per vedere.

Poi si stendeva in fondo, sopra le coperte, senza sentire freddo, perché ormai la sua pelle non lasciava passare nemmeno quello. Ma non dormiva. Il suo corpo si era ormai lasciato alle spalle quella necessità. Non sapeva se era perché aveva dormito quanto una creatura deve dormire nel corso della vita, o se invece si rifiutava per non cadere nel sonno eterno. Non ci pensava più di tanto. Dopo qualche ora sul morbido letto, iniziava a sentire le spinte e i pizzicotti che le dava per ricordarle che era ora di andare a trovare la sua fedele amica, la sedia a dondolo.

«Ne Il sussurro delle api troviamo una profondità narrativa che ricorda i maestri della letteratura latinoamericana come Isabel Allende.»
The Washington Post

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