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La figura di Anna Politkovskaja raccontata dalla figlia Vera

«Per mia madre il giornalismo era una vocazione, esprimeva il significato più profondo della sua esistenza, e non avrebbe voluto essere null’altro di ciò che è stata, ovvero una giornalista libera». Una giornalista libera come non possono più essere i giornalisti nella Russia di oggi, ci spiega Vera, la figlia di Anna Politkovskaja che ha appena dato alle stampe Una madre. La vita e la passione per la verità di Anna Politkovskaja. L’abbiamo incontrata durante il tour italiano di presentazione del libro, che si è concluso il 24 febbraio scorso al Quirinale, dove Vera Politkovskaja è stata ricevuta dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Progetto editoriale nato in seno alla casa editrice Rizzoli, che lo porta in libreria in Italia in anteprima mondiale a un anno dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, Una madre – scritto con l’inviata di “Piazzapulita” Sara Giudice e con la traduzione dal russo di Marco Clementi – è la testimonianza unica e diretta della figlia Vera, che per la prima volta raccoglie i suoi ricordi di figlia e le sue riflessioni senza sconti sulla Russia odierna a sedici anni dall’omicidio della madre Anna Politkovskaja, giornalista di “Novaja Gazeta”, il principale quotidiano dell’opposizione russa diretto dal premio Nobel per la pace Dmitry Muratov costretto dalle leggi sulla censura a interrompere le pubblicazioni nel marzo del 2022, dopo il secondo richiamo dei censori di Roskom­nadzor, l’agenzia federale addetta al controllo dei media.

Anna Politkovskaja dedicò la propria vita a raccontare la verità, a difendere la libertà di stampa, a denunciare i soprusi, la corruzione, l’omertà e le ingiustizie stando dalla parte dei più fragili, degli indifesi, dei poveri, così come ricorda Vera nel libro ripercorrendo le tappe più significative dell’attività giornalistica della madre, dai reportage dalla Cecenia che rivelarono al mondo le atrocità del regime di Putin e dei suoi sostenitori al ruolo di mediatrice svolto durante l’assedio del teatro moscovita Na Dubrovke da parte dei terroristi ceceni nel marzo del 2002, dal tentativo di avvelenamento subito nel settembre del 2004 su un volo per Beslan fino alla morte avvenuta nell’ottobre del 2006. Pagine importanti e decisive per capire chi è stata Anna Politkovskaja, perché era una persona scomoda agli occhi delle autorità russe ma anche della maggioranza della popolazione, e perché la sua testimonianza è ancora attuale se non addirittura premonitrice (al proposito, Bur ha da poco riportato in libreria Un piccolo angolo di inferno, con la prefazione di Francesca Mannocchi: un libro unico per riascoltare la voce coraggiosa e rigorosa della Politkovskaja, un testo appunto premonitore per comprendere le contraddizioni più profonde della Russia di Putin che hanno portato alla guerra in Ucraina).

Una madre è anche un testo a tratti commovente, sono pagine toccanti e intime nel ricordo di Vera, che non nasconde l’amarezza di figlia per il sacrificio della madre nel racconto dei momenti familiari lungo l’infanzia e l’adolescenza, quelli più felici e quelli più duri, a comporre un ritratto in un certo senso inedito di Anna, madre affettuosa e presente nonostante la dedizione assoluta al proprio lavoro di reporter, nonostante l’obbligo morale che avvertiva di andare là dove serviva andare per indagare e appurare la verità dei fatti, madre attenta all’educazione dei figli tanto rigorosa quanto lo era nella sua professione.

Una madre ci appare dunque come un libro che non è soltanto l’omaggio di una figlia al coraggio della madre che ha sacrificato la propria vita in nome della verità e della libertà, ma anche l’atto di coraggio di una figlia nel fotografare la Russia di oggi e nel denunciare gli stessi identici crimini denunciati da Anna e che paiono ripetersi nel tempo come una maledizione.

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Leggi l’intervista a Vera Politkovskaja

Perché ha deciso di scrivere questo libro e quanto le è costato, in termini personali e affettivi, ripercorrere la storia dolorosa della sua famiglia?

«Volevo innanzi tutto ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: siate coraggiosi e chiamate sempre le cose con il loro nome, dittatori com­presi. Rispetto a mia madre, per me è stato più semplice perché ho scritto questo libro in esilio, lontana dalla Russia, ragion per cui non lo considero un atto di coraggio ma un dovere che avevo nei confronti di mia madre. Il messaggio che volevo trasmettere al lettore è molto semplice: mia madre era una persona normale, che nella nostra quotidianità familiare affrontava i problemi di tutti i giorni come qualsiasi altra persona, una normalità che però cessava nel momento in cui faceva le valigie e partiva per la Cecenia. Ho voluto raccontare mia madre sia nella sua veste privata, nei momenti vissuti in casa con noi, sia nei momenti complessi e drammatici che riguardano le vite delle persone sofferenti di cui si è sempre occupata mia madre nello svolgimento della sua professione. In Russia il giornalismo libero», rac­contare i fatti scrivere senza tener conto delle gerarchie come faceva Anna e come ci spiega Vera, «è morto con lei. Oggi purtroppo il giornalismo in Russia è diventato propaganda, e le voci libere sono costrette a tacere».

Anna Politkovskaja è morta il 7 ottobre del 2006, nel giorno del compleanno di Vladimir Putin, uccisa da cinque colpi di pistola sparati da un sicario i cui mandanti, nonostante gli anni di indagini e di processi, non sono ancora stati identificati, «e probabilmen­te non sono mai stati cercati davvero», scrive Vera nelle pagine del libro in cui ripercorre ora dopo ora l’orrore di quel giorno. Vera aveva 26 anni quando sua madre è stata assassinata nell’androne di casa in pieno centro a Mosca. «Accanto al corpo la polizia trovò una Makarov PM e i bossoli. L’arma che l’aveva uccisa era stata lasciata lì. Un chiaro segnale del fatto che si trattava di un omicidio su commissione».

Quel sabato pomeriggio Anna era uscita a fare la spesa per Anna, che era ai primi mesi di gravidanza. All’incirca una settimana prima dell’omicidio «avevo saputo che avrei avuto una bambina»; nata nel marzo del 2007, la figlia di Vera, ora sedicenne, si chiama come la nonna, Anja, e per questo «a scuola è stata subito ogget­to di atti di violenza e di bullismo». Racconta Vera nel libro: «Quando Anna visitava una nuo­va palestra per un corso di ginnastica, le veniva spesso ricordato dai suoi coetanei, ovviamente in forma offen­siva, da quale famiglia provenisse. Dopo il 24 febbraio 2022, però, la mancanza di rispetto si è trasformata in minaccia». Una sera, l’anno scorso, Anja riceve sul telefono un messaggio terribile. «Nella mia vita ho visto di tutto ed è difficile che qualcosa possa spaventarmi davvero, ma qui si trattava di mia figlia», scrive Vera. «Quel messaggio, al quale ne seguirono altri dello stesso gruppo di compagni di scuo­la, conteneva chiare minacce alla sua vita, così chiare che c’erano tutti i presupposti per una denuncia penale».

Il 17 aprile 2022 Vera e Anja hanno caricato in auto quel poco che potevano portarsi appresso – «contava solo ciò che era davvero utile, ossia i vestiti, i documenti, il denaro. E qualcosa di immateriale: i ricordi», scrive Vera – e hanno lasciato Mosca e la Russia; ora vivono in esilio in una località segreta e protetta. Prima di prendere la decisione insieme al fratello Il’ja di abbandonare il Paese, Vera ha dovuto prendere un’altra decisione difficile: ha deciso di lasciare il proprio lavoro di giornalista presso l’emittente televisiva “Obšcestvennoe Tele­videnie Rossii”, «che si può tradurre come ‘televisione pubblica russa’, sebbene sia un canale privato». Nel libro spiega perché: dal mag­gio del 2013 al marzo del 2022 Vera è stata una degli autori del programma Prav!Da? (pravda significa ‘ve­rità’, prav vuol dire anche ‘ho ragione, sono nel giusto’, e da significa ‘sì’). «Siamo riusciti a raccontare al pubblico ciò che non avrebbe sentito su altri canali televisivi russi» ma dopo il 2021, al cambio dei vertici dirigenziali, «tutti gli argomen­ti in qualche modo sensibili e rilevanti sono progressiva­mente scomparsi e il programma ha perso l’appeal che si era guadagnato nel corso delle stagioni precedenti. A quel punto avevo ben chiaro che era solo questione di tempo prima che lo chiudessero».

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Se un giorno sua figlia dovesse dirle che vuole fare la giornalista, lei come reagirebbe?

«Spero che mia figlia non decida mai di fare la giornalista ma se dovesse balenarle questa idea, farei di tutto per fargliela passare. Nella nostra famiglia ne abbiamo avuti fin troppi, di giornalisti», ci risponde senza mezzi termini Vera. Il padre di Vera, il giornalista Aleksandr Politkovskij, era uno dei volti noti del programma Vzgljad (“Lo sguardo”), trasmesso per la prima volta nell’ottobre del 1987, «una palestra per il giornalismo d’inchiesta, antesignana dei più moderni talk show», spiega la figlia, che dice di aver ereditato da lui la passione per il giornalismo televisivo. «Mio padre seguì molti argomenti delicati tra cui la tragedia della centrale nucleare di Cernobyl’, indagando sulle conseguenze catastrofiche dell’incidente. Nove gior­ni dopo il disastro, la direzione del programma lo inviò sul posto, e lui entrò addirittura nella città di Pripjat’, la più colpita dalle radiazioni», racconta Vera. «Non passò molto tempo e anche mio padre iniziò a ma­nifestare gli effetti delle radiazioni: gli caddero i capelli e prese molto peso». Il fatto che i giornalisti potessero indagare su una vi­cenda «che solo pochi anni prima sarebbe stata sepolta sotto una coltre di omissis dettati dalla sicurezza nazio­nale», riflette Vera a proposito di quegli anni, «era la prova lampante che la perestrojka fosse ormai un processo irreversibile».

Alla luce invece del consenso di cui gode oggi Putin presso l’opinione pubblica russa, cresciuto addirittura dopo lo scoppio della guerra in Ucraina il 24 febbraio 2002, quali pensa che possano essere gli scenari futuri in Russia?

«In effetti, a partire dal 24 febbraio, quando è cominciata la guerra, il sostegno a Putin ha significato anche un sostegno all’invasione dell’Ucraina. Purtroppo, nel momento stesso in cui stiamo parlando, i soldati russi continuano a morire. Sono nostri fratelli, figli, mariti, giovani uomini. Un numero di morti che crescerà nel tempo e che credo porterà inevitabilmente in qualche modo l’opinione pubblica a riflettere sul significato di questa guerra e sulle ragioni per cui si debba andare a morire in guerra. Credo cioè che arriverà un momento in cui questo sostegno calerà sensibilmente».

Nel libro Vera spiega non soltanto come funziona l’informazione e la comunicazione di regime, ricordando per esempio che «nella sconfinata periferia russa l’unica fonte di informa­zione è la televisione di Stato e se lì si dice che la guerra non c’è, allora non c’è», ma spiega anche come funziona il reclutamento dei soldati. Ragazzi giovanissimi, poveri, provenienti dai posti più iso­lati della Russia, «sbattuti in prima linea con un addestramento minimo. In pratica carne da macello». Apprendiamo delle cosiddette “truppe a contratto” for­mate da volontari a cui vengono offerti stipendi mensili tra i 3500 e i 3700 euro, «quasi dieci volte la paga base di un soldato in ‘tempi normali’», spiega Vera. «La maggior parte della popolazione è impe­gnata a sopravvivere in condizioni di povertà, a preoccuparsi di mangiare e di pagare le bollette, e per di più le sanzio­ni per la partecipazione a manifestazioni di protesta sono diventate così elevate che pochi osano esporsi».

Che ruolo gioca la povertà, oggi in Russia, nel facilitare l’esercizio di un potere e di un regime dittatoriale?

«In effetti la questione è molto delicata e al contempo molto chiara. Il fatto che il potere sfrutta la povertà è assolutamente vero, e credo che durerà ancora a lungo. Vi posso raccontare al proposito un fatto di cui mi è arrivata notizia proprio in questi giorni: è la storia di un uomo, un padre di famiglia, che si è arruolato volontario nelle truppe a contratto perché aveva bisogno di soldi con cui pagare un’operazione chirurgica urgente per la figlia malata di quattro anni. Ai primi di febbraio l’uomo è morto in guerra, e dopo qualche giorno è morta anche la figlia. Vi racconto questa storia perché è una situazione paradigmatica. In Russia le persone, e parte dei soldati arruolati in Ucraina, vengono letteralmente comprate nel momento del bisogno. Ovviamente c’è anche chi va in guerra perché si vuole comprare una casa o un’auto, ma qui siamo di fronte a un padre che sacrifica la propria vita per un’assistenza sanitaria di cui dovrebbe farsi carico lo Stato e che invece non garantisce. Queste situazioni sono talmente tante e ripetute in ogni angolo della Russia, che purtroppo credo che questa condizione di sfruttamento della povertà ai fini della guerra continuerà per molto tempo».

Nel libro lei scrive che in Russia «la democrazia ha un prezzo» e che la libertà «è un lusso che si possono permettere in pochi». Che cosa intende dire?  

«In Russia la libertà è un lusso perché per comportarti da persona libera come prima cosa devi avere un buon avvocato, in quanto prima o poi finirai nelle mani della giustizia. Se scegli di protestare e di scendere in piazza, sai che stai violando la legge e che passerai la notte in cella. Se non vuoi scendere in piazza ma ti metti al computer per protestare attraverso i social, sai che anche così stai violando la legge. E, pur avendo un buon avvocato, non è detto che ciò ti garantisca di evitare il carcere. Ecco perché essere o pensare di essere una persona libera è un lusso nella Russia di oggi».