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La pandemia di Wuhan. Come la scienza può salvare l’umanità

Cronache da Wuhan

il testo che segue è tratto da Virus – La grande sfida di Roberto Burioni

Era la fine di novembre 2019 e Han – un nome di fantasia – aveva lavorato tutta la settimana nel mercato ittico di Huanan, come negli ultimi mesi. Si chiamava «mercato ittico», ma era un turbinio di animali vivi, morti o in via di macellazione. D’altra parte una caratteristica della Cina è quella di non avere tabù gastronomici: vengono mangiate praticamente tutte le creature di terra, di mare e dell’aria, e quel mercato faceva capire benissimo il significato concreto di questa affermazione. Il lavoro era duro, ma la paga era dignitosa e gli permetteva di condurre una vita che non consisteva solo nella sopravvivenza, come accadeva in campagna.

A Wuhan poteva andare a cena con gli amici ed era proprio quello che Han aveva fatto la sera prima.

Avevano riso, mangiato, bevuto. Forse aveva bevuto troppo, perché non si sentiva bene.

In effetti non si sentiva bene neanche la sera prima: aveva mal di gola, gli occhi rossi e forse un po’ di febbre.

Ma per nulla al mondo avrebbe perso i festeggiamenti per il compleanno del suo più caro compagno di classe.

L’indomani Han rimase a letto tossicchiando, guardando la televisione e navigando su internet con il suo smartphone.

Prese un paio di aspirine, la febbre si abbassò e lui il giorno dopo – lunedì – andò come al solito al lavoro.

Però era stanco, affaticato, gli sembrava di avere il fiato ogni secondo più corto. Per una volta tornò a casa in orario, sperando che una buona notte di riposo potesse rimetterlo in piedi.

Non fu così. La mattina dopo la tosse era peggiorata, il respiro si era fatto più pesante. Han cominciò a preoccuparsi.

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Vennero degli amici a trovarlo per portargli delle provviste, dato che nei giorni precedenti non aveva avuto tempo di passare al supermercato. D’altra parte per loro non era stato un grande sacrificio, visto che vivevano in un altro piano di uno degli immensi condomini che affollano quella città gigantesca, abitata da undici milioni di persone, che la riempiono come formiche operose in ogni suo angolo. Purtroppo però la salute di Han non migliorava: febbre alta, tosse e soprattutto il respiro, sempre più difficile, affannoso, che lo lasciava con una perpetua fame d’aria. Si fece portare in un ospedale, dove si accorsero che le sue condizioni erano pessime: lo ricoverarono prima nel reparto di pneumologia, ma ben presto finì intubato in terapia intensiva, dove ossigeno e macchine complicate lo aiutavano a respirare. Eppure nonostante tutto rimaneva quella terribile fame d’aria, quel sentirsi soffocare, quel bisogno di prendere il proprio sangue, esporlo all’esterno e rimetterselo dentro pieno di ossigeno: il lavoro che una volta facevano i suoi polmoni.

In quella stanza dalla luce azzurrina e dalle pareti verdi, contornato da tubi, fili e cannule che convergevano come raggi sul suo corpo malato, Han stava combattendo una partita disperata. Ma il suo avversario – un nuovo coronavirus – aveva già vinto. Partendo da un pipistrello e seguendo vie ancora sconosciute – e a questo punto forse irrilevanti –, era riuscito a passare all’uomo e diventare un virus umano. Era avvenuto uno spillover, quello che avrebbe segnato drammaticamente il nuovo anno cinese, quello del Topo.

Un anno che la Cina non dimenticherà mai.

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Mentre Han va incontro al suo destino, negli ospedali di Wuhan i medici cominciano ad accorgersi che qualcosa non va. Arrivano malati con una sindrome molto simile all’influenza, ma a differenza dell’influenza – che di norma nelle persone sane guarisce senza problemi nel giro di qualche giorno – non migliora spontaneamente, anzi peggiora e in alcuni casi porta il paziente alla morte.

Tra i medici comincia a serpeggiare una certa ansia: il pensiero va alla SARS, un’infezione pericolosissima che questa malattia ricorda in maniera preoccupante.

I timori cominciano a serpeggiare prima nei corridoi, poi nella mensa, e alla fine tracimano, con uno spillover scontato, nelle chat dei medici. Infatti proprio il 30 dicembre 2019 Lin Wenliang, un oculista di 34 anni, preoccupato da questi pazienti che arrivano con una congiuntivite e finiscono morti con una gravissima insufficienza respiratoria, invia nel gruppo dei suoi vecchi compagni di università un messaggio col quale li avverte che nel suo pronto soccorso ci sono in quarantena sette pazienti provenienti proprio dal mercato ittico di Huanan.

Qualcuno degli altri medici si ricorda del recente passato e si chiede: «Non è che la SARS sta tornando?».

A quel punto, però, accade l’imprevisto. Uno dei medici fotografa lo schermo che contiene questi messaggi e manda lo screenshot a un amico, che lo manda a un altro amico, che lo manda a un altro amico ancora. Alla fine la fotografia dello schermo arriva su Weibo, la versione cinese di Twitter. Come potete immaginare la reazione della gente non è trascurabile, e non è trascurabile neanche quella della polizia, che arresta il povero medico rilasciandolo solo dopo avergli fatto giurare di non diffondere più notizie false che possano gettare nel panico la popolazione.

Nel frattempo la Cina – come nazione – si muove a due velocità. Dal punto di vista scientifico è un razzo: isola subito il virus, ne caratterizza il genoma e mette generosamente a disposizione di tutto il mondo i dati che consentiranno di sviluppare un test diagnostico. Ma da un altro punto di vista le cose vanno in modo ben diverso.

Solo a fine dicembre le autorità diffondono un laconico comunicato su ventisette casi di «polmonite sospetta» nella città di Wuhan. L’ordine tassativo diramato a tutti i mezzi di comunicazione e a tutti i medici è uno solo: minimizzare. Di questa infezione non si parla e per tranquillizzare tutti il governo centrale manda a Wuhan uno dei suoi medici più esperti e più famosi, Wang Guangfa, il direttore del reparto di pneumologia dell’Ospe dale della Prima Università di Pechino. Il luminare, durante una conferenza stampa, rassicura tutti: la situazione è sotto controllo e non ci sono rischi di contagio. Peccato che pochi giorni dopo lui stesso finirà in ospedale, infettato.

I casi continuano a crescere e tra le autorità di Wuhan comincia a serpeggiare il terrore. Ma in un Paese autoritario portare brutte notizie non è mai una buona idea, meglio minimizzare. Il contagio si diffonde e per settimane non si prendono provvedimenti, ma a un certo punto la situazione precipita. Il 23 gennaio la città viene blindata, una misura che, per portata, non ha precedenti nella storia del genere umano: undici milioni di persone in quarantena. Peccato che cinque giorni prima le autorità locali avessero organizzato e portato trionfalmente a termine un gigantesco banchetto con 40.000 famiglie, per battere un record del Guinness dei primati.

Di certo un comportamento poco coerente.

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A questo punto però il mondo entra in allarme, perché i primi casi iniziano a manifestarsi anche in altre nazioni e con sofisticate analisi statistiche si riesce presto a capire che dei dati cinesi c’è davvero poco da fidarsi.

L’unica cosa certa è che sta partendo un’epidemia causata da un virus nuovo, pericoloso e contagioso. La reazione di molti Paesi è estremamente tiepida, del virus si sa ancora poco e cominciano le polemiche. La prima riguarda la possibilità di contagio da parte di individui che non hanno sintomi. Il fatto che l’infezione possa essere asintomatica è un’ottima notizia per il paziente, che non sta male, ma è ancora migliore per il virus, che viene diffuso da chi sta bene e se ne va in giro per la città.

Sulla rivista medica più autorevole del mondo, il «New England Journal of Medicine», appare la storia di una manager cinese che, in perfetta salute, è arrivata in Germania per poi tornarsene in Cina il 22 gennaio. Una volta in patria si è ammalata e, tre giorni dopo la sua partenza, in Germania cominciano a manifestarsi casi di coronavirus tra coloro che l’hanno incontrata, prova evidente della possibilità di contagio da parte di persone asintomatiche. Eppure non pochi continuano imperterriti a sostenere che il contagio avviene solo in presenza di sintomi, facendo presente che qualche sintomo – seppur molto lieve – la signora cinese lo stava accusando già durante il suo soggiorno in Germania. Si prosegue nella sterile discussione, priva di senso in quanto è evidentissimo che persone che stanno tutto sommato bene, o comunque non molto male, sono in grado di diffondere efficacemente il virus. Basterà attendere qualche settimana e sarà la stessa situazione epidemiologica a chiarire definitivamente la questione, confermando che gli individui asintomatici sono infettivi; ma intanto si è perso tempo.

Il dibattito continua anche riguardo alla pericolosità della malattia: secondo alcuni non si tratta che di un’influenza come le altre, mentre la situazione è ben diversa.

L’influenza causa di certo numerose vittime, ma quasi tutte tra persone che hanno una salute già compromessa per altri motivi. Invece nel caso di questo nuovo coronavirus muoiono o comunque si ammalano gravemente anche pazienti giovani e nel pieno delle forze: questo perché, mentre l’infezione causata dal virus influenzale rimane nella parte alta dell’apparato respiratorio – interessando sostanzialmente trachea e bronchi –, questo nuovo virus riesce a spingersi in profondità nei polmoni, impedendo l’ossigenazione del sangue e causando nel paziente una gravissima polmonite virale (e in questo, come vedremo, ricorda il comportamento del virus dell’influenza spagnola).

Altri lasciano perdere l’influenza e tirano fuori i paragoni con la SARS, la «sindrome respiratoria acuta grave » che ha spaventato il mondo tra il 2002 e il 2003 (ne parleremo): sostengono che il nuovo virus è molto meno rischioso, in quanto più di rado uccide i pazienti. Anche questi hanno capito poco: la SARS era immensamente meno pericolosa, visto che l’infezione proveniva soprattutto da pazienti con sintomi già molto evidenti e quindi ricoverati in ospedale. Il nuovo virus è imparentato con quello della SARS (infatti il suo nome ufficiale è SARSCoV-2), ma viene diffuso anche da gente che sta bene, o che non sta molto male. Di conseguenza un paziente infettato dalla SARS contagiava più che altro i medici che lo curavano, mentre quello colpito da COVID-19 (il nome della malattia, cioè COronaVIrus Disease 2019, «malattia da coronavirus scoperta nel 2019») diffonde l’infezione nella comunità. Anche questo dibattito termina immediatamente quando i numeri dimostrano che in poche settimane COVID-19 ha causato più ricoveri e più morti di quanto non abbia fatto la SARS in un anno.

Un elemento importantissimo di questa nuova infezione è l’incubazione, cioè il periodo privo di sintomi che va dal momento in cui il paziente si infetta al momento in cui sviluppa la malattia conclamata. Nel caso dell’influenza questo lasso di tempo è brevissimo (un giorno), invece per COVID-19 la situazione è del tutto diversa: dura tipicamente cinque o sei giorni, che possono arrivare fino a dieci-dodici. La cosa è tutt’altro che irrilevante, dato che rende poco efficace il tentativo di bloccare la diffusione della malattia misurando la temperatura dei viaggiatori negli aeroporti o nelle stazioni ferroviarie: possiamo benissimo trovarci in presenza di un paziente che è stato appena infettato, è in perfetta salute durante il periodo di incubazione e solo una volta arrivato a destinazione svilupperà la malattia, contagiando gli altri.

Tutto ciò porta molti esperti a una consapevolezza: l’unico modo per bloccare questo virus è la quarantena.

La Cina l’ha capito per prima e mette in atto misure inimmaginabili: isolando cinquantasette milioni di persone, chiudendo scuole e uffici, fermando le fabbriche.

Negli altri Paesi, al contrario, ci si muove con molta più cautela. In Italia alcuni politici, in un’interpretazione folle del «politicamente corretto», vedono queste misure come razziste e discriminatorie e bollano chi le propone come «fascioleghista». L’infezione pare essere asintomatica in maniera molto frequente nei bambini, e si discute se riammettere a scuola quelli di ritorno dalla Cina. Ovviamente la risposta è «no», ma in diverse nazioni i politici ondeggiano pericolosamente in un’indecisione che può avere conseguenze terribili, quasi pensando che la loro correttezza politica basti a bloccare la malattia, o che si debba avere più paura di essere definiti razzisti che di ammalarsi di questo nuovo temibile virus.

Si parla anche dell’isolamento per gli adulti: c’è chi sostiene che chiunque ritorni dalla Cina debba essere isolato, ma di nuovo c’è chi grida al razzismo, chi vede in questo una discriminazione. Scioccamente, perché se c’è qualcosa che ci ricorda che le razze umane non esistono e che siamo tutti uguali è proprio questo virus, che colpisce indifferentemente individui di ogni sesso, età, nazionalità ed estrazione sociale. Però, come nei Promessi sposi, anche nel nostro caso ci sono i don Ferrante che ideologicamente negano l’esistenza della peste e fanno finta di niente. Don Ferrante finirà ucciso dalla malattia di cui negava l’esistenza, i politici titubanti verranno invece ben presto travolti dagli eventi: il virus, come puntualmente previsto dagli scienziati, arriverà proprio dalla Cina, comincerà a diffondersi e a quel punto anche i più restii saranno costretti a emanare – troppo tardi – quei provvedimenti che hanno tanto esitato a prendere seriamente in considerazione.

Non sappiamo, nel momento preciso in cui questo volume va in stampa, cosa accadrà nei prossimi mesi. Però sono molte anche le cose che sappiamo, e ve le racconteremo in queste pagine. Vi spiegheremo cosa è un virus, quale rapporto stranissimo di amore-odio intrattiene con l’ospite che infetta, come è riuscito a sviluppare una sorta di intelligenza che gli permette di prendere incredibilmente sempre la strada più giusta. Vi racconteremo cosa succede quando una malattia infettiva si diffonde, quale impatto può avere su una società, sulla vita e sulla storia degli uomini questo evento che si chiama epidemia. E per farvelo capire passeremo in rassegna le più rilevanti epidemie della storia, partendo dalla peste di Atene per arrivare a quella di questi giorni, causata da un nuovo coronavirus, passando per la morte nera, l’influenza spagnola, l’AIDS, l’Ebola, la SARS. Vi faremo capire che un epidemiologo è qualcosa di simile a un detective che insegue un serial killer, vi riveleremo da dove arrivano i virus che attaccano l’uomo e come fanno a diffondersi sfruttando ogni opportunità e pure ogni nostra debolezza.

Come abbiamo detto, non sappiamo cosa accadrà nei prossimi mesi e cosa sarà vero nel momento in cui avrete in mano questo libro e comincerete a leggerlo. Però siamo sicuri che il miglior modo per sconfiggere un nemico è conoscerlo bene. Sapere di più su virus, epidemie e malattie infettive vi consentirà di distinguere le bugie dalle verità, le giuste preoccupazioni dai timori infondati.

Insomma, in questa battaglia contro una nuova minaccia sarete dei combattenti migliori.

Perché la vera arma che abbiamo contro qualunque minaccia è la conoscenza delle cose.