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Walter Siti, riflessioni sul bene in letteratura

Quanti hanno a cuore i libri converranno con noi che riflettere sul bene e sul male che può fare la letteratura non è esercizio riservato a pochi oziosi o esperti letterati. Basta, per esempio, provare quantomeno fastidio dinnanzi alla proposta della critica americana Lisa Zunshine di non far più leggere ai ragazzi Lolita di Vladimir Nabokov, come riporta Walter Siti nel suo nuovo saggio Contro l’impegno. Riflessioni sul Bene in letteratura, per sospettare che la sopravvivenza di certi romanzi sia a rischio e per accogliere il suo appello a ragionare sulla pubblica piazza, con serietà e pacatezza, su che cos’è la letteratura e perché bisogna difenderla. Sempre che crediamo, d’accordo con lui, che la letteratura sia «un modo di conoscere la realtà non surrogabile da altri tipi di conoscenza; se sparisse dal mondo, sarebbe come dover fare senza la chimica, o la storia».

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Alcuni scrittori hanno già accolto l’invito, come Alessandro Piperno, che ha firmato un denso intervento sulla “Lettura”, o come Annalena Benini, che dalle pagine de “Il Foglio” scrive:

«Walter Siti ti porta sempre dove non vorresti andare. O anche dove non avresti pensato di andare per pigrizia, per convenienza, per una specie di disfattismo attivo che induce ad alzare le spalle e a dire: passerà. Passerà questo vento maccartista che ci riporta indietro, anche se eravamo certi che indietro fosse impossibile tornare, avanti come siamo. E invece veniamo soffiati giù in un tempo in cui in nome della modernità e dell’accoglienza è in gioco la libertà di citare e insegnare Lolita di Nabokov perché sconveniente, perché può turbare moltissimo.»

Il messaggio inviato a Walter Siti da un noto e celebrato regista italiano suona invece più o meno così: «Sto leggendo il tuo nuovo libro e ho deciso che lo imparerò a memoria», con un chiaro e divertito riferimento ai personaggi ribelli di Fahrenheit 451, che imparano a memoria i libri prima che vengano messi al rogo.

Walter Siti scandaglia il percorso di alcuni autori di successo

«Secondo la critica americana Lisa Zunshine, Lolita è un libro che non bisognerebbe più far leggere ai ragazzi perché fa credere al lettore che lo stupro di una ragazzina da parte di un uomo maturo sia invece un gioco di seduzione esercitato dalla ragazzina sull’uomo. Il fatto è che, leggendo il romanzo, noi pensiamo che Humbert Humbert venga sedotto da Lolita e non possiamo fare a meno di identificarci con lui. È l’intento di Nabokov: farci mandare giù qualcosa di inaccettabile, cioè il desiderio provato per una bambina», ci spiega lo scrittore, premio Strega nel 2013 con Resistere non serve a niente. «È la stessa cosa che succede con Fedra di Jean Racine, che narra di un amore incestuoso, inaccettabile all’epoca in cui visse Racine. Lui stesso ci dice che quell’amore è inqualificabile, ma anche qui non possiamo fare a meno di immedesimarci con Fedra. Questa è l’ambiguità ineliminabile della letteratura, che ha a che fare con la realtà e che è sia bene sia male». Riflettere “sul Bene in letteratura”, come recita il sottotitolo del pamphlet, chiedersi cioè se la letteratura fa del bene o del male «non è una domanda oziosa per letterati. Io penso che conoscere la realtà delle cose, se all’inizio può far male, alla lunga può far bene alla società. Temo però che certe epoche e certe società possano decidere che della letteratura si può anche fare a meno, come successe nell’ottavo e nel nono secolo in Occidente, quando non mi pare ci siano stati testi letterari significativi, oppure in Cina nell’Ottocento, quando gli storici erano molto più considerati dei romanzieri».

Professore di Letteratura italiana e critico letterario, in Contro l’impegno Walter Siti scandaglia, con la competenza e l’autorevolezza riconosciutagli da più parti, il percorso di alcuni autori di successo, tra cui Roberto Saviano, Gianrico Carofiglio e Michela Murgia, casi editoriali come il bestseller Cambiare l’acqua ai fiori di Valérie Perrin, fino a esaminare la tivù generalista di Barbara D’Urso e Alfonso Signorini, del Grande Fratello Vip e dei talk show politici. Ne emerge così la tendenza, particolarmente accentuata in questi due ultimi decenni, ad attribuire alla letteratura il compito di riparare il mondo e le nostre vite, rincuorarci con storie terapeutiche, difendere i più deboli e lottare contro le ingiustizie, quando invece alla letteratura spetterebbe semmai soprattutto il compito di farci dubitare della nostra stessa natura, di scavare nella profondità dell’inconscio (di noi lettori e ancor prima di quello degli scrittori), di metterci di fronte all’ambiguità dei nostri pensieri e delle nostre azioni e alle opposte verità, di farci cadere nell’abisso in cui alla fin fine dovrebbero portarci i buoni romanzi (nel libro Siti ne cita parecchi, ed è un altro motivo per leggerlo).

Siti ci spiega perché «il maggiore obiettivo della letteratura non è la testimonianza, ma l’avventura conoscitiva. “Che cos’è la letteratura” è una domanda che non ci si fa quasi più; semmai ci si chiede “a che cosa serve la letteratura”», in un’epoca in cui, scrive Siti,

«i social hanno esteso all’oggetto-libro la paura di quel che dice la gente, rendendo raro e scorbutico il sano (sano anche per la letteratura) fregarsene. Confinare le parole al loro uso comunicativo o didattico è ormai più una deriva tecnologica che un’esigenza civile. Si dice che con le parole si può cambiare il mondo, “le parole sono importanti” – ma se davvero sono importanti, allora bisogna anche saperle ascoltare (proprio loro, non le idee), farsi vuoti e disposti a lasciarsi guidare dal loro misterioso aggregarsi; purché la ragione, prima d’esser vinta, si dibatta come un pesce tirato in secca.»

Oggi, invece, la tendenza è appunto evitare che la letteratura abbia un harmful impact, «un impatto dannoso sui lettori, avvicinandoli a idee malsane come il fascismo, il maschilismo, il razzismo eccetera», secondo un imperante “politicamente corretto” che avrebbe poco da spartire con la letteratura ma alla quale si attribuisce la malintesa funzione di militanza civile, di engagement, di “impegno” – promosso ed esercitato per lo più dalle élite progressiste mainstream – contro cui argomenta il saggio di Walter Siti sin dal titolo.

«L’impegno strizza l’occhio all’intrattenimento come l’intrattenimento lo strizza all’impegno (basta guardare le fiction sulle tivù generaliste, che sembrano fatte col manuale Cencelli del politicamente trendy: un nero, una suora progressista, una coppia omosessuale, una donna a capo del distretto di polizia, un handicappato…).»

«Io penso che la letteratura possa spingerci all’odio, degli altri e di noi stessi, e possa arrivare a farci dubitare di qualunque verità; che serva a mettere ordine nel caos, ma anche caos nell’ordine. Politicamente la letteratura è sempre inaffidabile», scrive Siti nel libro.

«La letteratura può essere conservatrice e progressista insieme. Per esempio, ora sto lavorando su Dante, che in questo senso è un caso emblematico: non c’è dubbio che la Divina Commedia è un testo fortemente conservatore dal punto di vista politico», ci spiega. «Dante è contrario alla trasformazione dell’Italia, vorrebbe tornare indietro con l’orologio della storia all’impero universale, quindi da questo punto di vista è certamente un reazionario. Però scrive in una lingua totalmente nuova e innovativa, prima di lui nessuno aveva osato usare il volgare italiano in quella maniera, instaura una specie di rapporto tra la propria autobiografia e l’assoluto, il senso generale delle cose, assolutamente inedito per l’epoca, e quindi possiamo dire che è estremamente innovatore e conservatore nello stesso tempo».

Walter Siti: nei buoni romanzi tutto può irritare

Il motivo per cui dovremmo chiederci non a che cosa serve ma che cos’è la letteratura sta nel fatto che oggi i romanzi paiono asserviti a mero strumento per «diffondere la voce della verità (o della giustizia) tra il maggior numero di persone possibile, per “arrivare” tendenzialmente a tutti», nota Siti, cosicché si rischia che quell’engagement non si riduca ad altro che a un engagement rate, ossia il quoziente che calcola l’efficacia di un messaggio pubblicato su un sito web o su una piattaforma social, in una spasmodica ricerca di consenso mediante like, commenti e condivisioni da parte dei follower.

«Se quindi l’andazzo dei social e dei media è favorire un certo tipo di comunicazione, che dà prevalenza al numero di lettori da raggiungere, alla velocità dei link e all’orizzontalità dei contenuti», nota Siti, «allora effettivamente può anche darsi che un certo tipo di letteratura, come quella a cui io guardo e che è fondata sul tema della profondità, semplicemente cada in un cono d’ombra, costretta a operare nelle catacombe». Ecco perché dovremmo difendere la complessità della scrittura letteraria contro la semplificazione messa in atto dai meccanismi che governano oggi la comunicazione.

La forma di un romanzo è essa stessa contenuto, oltre che eleganza stilistica. «Agisce anche da armatura simbolica con cui lo scrittore controlla per esempio certi contenuti più pericolosi di altri, organizzando una struttura verbale che li attenui oppure, al contrario, li liberi nonostante diano fastidio a lui stesso o alla società». Nei buoni romanzi, «tutto può irritare e indignare», ma allora che fare? Bandirli come Lolita? Evitare di scrivere testi come Gomorra perché il fascino che normalmente esercita il cattivo in letteratura può generare fenomeni imitativi? «Io penso che la soluzione sia proprio la complessità», risponde Siti. «Più un’opera è complessa più è difficile imitarla: imitare Savastano è abbastanza facile, mentre la vedo dura imitare il protagonista dell’Uomo senza qualità di Robert Musil! Più lo scritto è semplicistico, più l’eroe negativo è facilmente imitabile perché si capisce subito com’è fatto, non ha camere oscure che nascondono tratti della sua personalità. Il masnadiero dell’Ottocento era affascinante proprio perché era soltanto un masnadiero».

Walter Siti contro il neo-impegno

Ma il “neo-impegno”, come lo chiama Siti, «diffida della sintassi troppo elaborata e di un’eccessiva cura formale: perché perdere tempo a pesare un aggettivo o a evitare una cacofonia, quando maiora premunt e l’importante è che “il messaggio arrivi”? Se ti interessa influire sui lettori non puoi permetterti di deluderli, sconcertarli o magari disgustarli. Le figure retoriche che il neo-impegno azzarda sono in genere piuttosto elementari, sia di parola (anafore, enumerazioni) che di pensiero (ironie, metafore fragorose); i personaggi parlano con un “io” standardizzato in cui è impossibile rintracciare geografia e classe sociale; i plot tendono spesso al noir o al melodramma, oppure si sbriciolano in una somma di frammenti, la leggibilità è la dote più apprezzata.»

Sulla sua pagina Facebook lo scrittore Nicola Lagioia dedica un post al saggio di Walter Siti: «Sogno un lungo evento in presenza tra persone che sull’argomento dicono cose molto diverse continuando a rispettarsi per tutto il tempo: cioè la cosa più fuori dalle logiche dell’algoritmo (dunque del potere) che si possa immaginare».

Su “la Lettura” lo scrittore Alessandro Piperno ammette con ammirabile sincerità:

«Tutti noi che facciamo questo lavoro per vivere, avvertiamo la minaccia che grava sulle nostre teste confuse: le scomuniche inflitte dalla correttezza politica sono all’ordine del giorno. Sempre più spesso mi capita di ricevere mail di lettori indignati per il modo in cui ho osato trattare un personaggio femminile in uno dei miei romanzi. Dubito che solo cinque anni fa, scrivendo, mi sarebbe capitato di chiedermi se il personaggio che stavo mettendo in scena potesse urtare la suscettibilità di qualcuno. Oggi mi capita. Non che questo m’induca a correggere il tiro, ma trovo sconsolante la sola idea che un simile pensiero abbia potuto traversarmi la mente.»

«Capita sempre più spesso oramai che, all’arrivo in libreria di un nuovo romanzo», rileva Siti, «anziché concentrarsi sul modo in cui è scritto, su quali e quanti spessori di senso contiene, si preferisca far polemica su riferimenti per così dire materiali come gli ebrei, i neri, i migranti… allora diventa abbastanza inevitabile che uno scrittore ragioni su cosa convenga e non convenga dire. Così come certa critica letteraria, anziché applicare gli strumenti di analisi letteraria che costano senz’altro un po’ di fatica, preferisce invece intervistare l’autore, dando così più visibilità all’autore come personaggio che all’opera. E mentre alcuni autori preferirebbero un’attenzione maggiore ai testi, altri si abituano alla risonanza che il proprio personaggio riscuote sui social e sui media, con buona pace del lavoro di scrittura, che finisce in secondo piano».

«Quando ho scritto Bruciare tutto», ricorda Siti a proposito del romanzo che scatenò svariate polemiche, «sapevo che il tema della pedofilia trattato in quel modo avrebbe probabilmente causato reazioni non positive, ma l’ho scritto comunque. Se invece sono uno scrittore esordiente 25enne, è probabile che eviti argomenti che potrebbero mettermi nei guai», riflette Siti, pensando ai suoi studenti. «La maggior parte di loro preferisce orientarsi verso generi come il fantasy o il thriller perché, comprensibilmente, ciò che importa loro è aver successo, non scavar dentro se stessi».

In questi ultimi cinque anni di insegnamento in scuole di scrittura creativa, racconta il professore, «mi è capitato talvolta d’intravedere nei testi scritti da alcuni ragazzi che erano partiti dall’idea di comporre una biografia o un thriller, qualcosa invece di personale piuttosto forte, che premeva per uscire. In un caso, una ragazza ha accettato il rischio e si è concentrata su un personaggio autobiografico, cioè sull’ultimo anello della saga familiare che aveva in mente. Adesso sta facendo un lavoro che lei stessa sente utile e difatti, l’altro giorno, mi ha ringraziato dicendomi “non so se salta fuori qualcosa, ma mi sta servendo tantissimo”. Però succede anche che alcuni dei ragazzi che sollecito ad andare più in profondità magari non si presentano più a scuola o cambiano argomento. Forse perché, semplicemente, alla loro giovane età tutto questo fa un po’ paura».