Noémie Chastain, la protagonista di “Superficie”, esiste davvero e si chiama Babeth

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Redazione BookToBook
30 Set 2022

«Ho l’impressione che la mia vita sia iniziata in questo ospedale. Non ricordo nemmeno più chi fossi prima di avere questa faccia da carne cruda». Ospedale militare Percy: Noémie risponde a Melchior, lo psichiatra che la segue dopo l’operazione chirurgica al volto; sono passati ventotto giorni dal blitz all’alba alla porta numero 22 del secondo piano di un edificio fatiscente della periferia parigina. La squadra antidroga capitanata dalla poliziotta Noémie Chastain lavorava da settimane all’arresto di Sohan, «una sudicia carogna che tagliava la coca con l’eroina, tanto per rendere dipendenti alla prima sniffata». Uno spacciatore noto per girare armato fino ai denti, i poliziotti erano consapevoli che non sarebbe stato un gioco da ragazzi. Ore 5:59: «L’occhio del ciclone. Una calma indecente. La capitana Noémie Chastain era in prima linea. Come sempre. Caposquadra non è solo un titolo». L’ariete sfonda il legno della porta d’ingresso, il corridoio è stretto e buio «come un baratro, o un brutto sogno». Noémie procede a tentoni, la sua squadra dietro di lei. Un calcio alla porta della camera. «Una detonazione simultanea a una luce intensa. Noémie non vide più nulla, nemmeno lo spacciatore tutto nudo, inginocchiato sul letto, che le aveva appena sparato in pieno viso con un fucile da caccia».

Sono le prime, inarrestabili pagine di Superficie, il nuovo romanzo di Olivier Norek, ex poliziotto e nuovo maestro del noir francese, tradotto in 14 lingue, oltre 2 milioni di copie vendute nel mondo (oltre 400mila soltanto con Superficie).

Superficie

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«Molti colleghi letterari di Norek scrivono le loro storie con l’inchiostro, lui le scrive con l’adrenalina accumulata in tanti anni (diciotto) di onorato servizio». Lui, Norek, «scrive come indagava», avverte Antonio D’Orrico dalle pagine de “la Lettura”:

«La prova è nelle quattro pagine fitte di ringraziamenti (stavolta non svenevoli e smancerosi come sono di solito) rivolti ai collaboratori che gli hanno fornito informazioni e consigli, i garanti dell’autenticità del suo racconto». Tra i ringraziati ce n’è uno che colpisce in modo particolare D’Orrico: è il colonnello Melchior Martinez dell’ospedale Percy, «psichiatra per i nostri soldati mutilati al viso e per i nostri poliziotti in cattive condizioni. Risanatore di anime», scrive Norek nelle ultime pagine del volume da pochi giorni in libreria. Dunque, conclude D’Orrico, «basta con gli scrittori alla moda, restituiamo il poliziesco ai poliziotti. Dalla Francia, sua patria, arriva un messaggio urgente: il polar ha bisogno di un bagno di verità».

Così è con Olivier Norek, come ci racconta lui stesso durante la sua tappa di metà settembre in Italia, dove ha incontrato i blogger in un evento dedicato ed è stato ospite di Pordenonelegge.

«Sono incapace di scrivere su cose che non conosco», ci dice Olivier Norek, che le lettrici e i lettori italiani hanno potuto conoscere nel 2018, quando Rizzoli ha pubblicato il primo romanzo dello scrittore francese tradotto in italiano, Tra due mondi, protagonista Adam, combattente nel conflitto siriano che arriva nel campo profughi di Calais, la cosiddetta “Giungla”, alla ricerca della moglie e alla figlia, fuggite dalla Siria qualche giorno prima di lui. «Quando iniziai a lavorare a Tra due mondi avevo già in mente una trama, un’indagine poliziesca, ma poi ho preso lo zaino e sono andato a Calais per vedere coi miei occhi, per vivere in prima persona quello di cui avrei scritto. Una volta arrivato lì, ho cominciato a parlare con i rifugiati, a conoscere le loro storie; quelle persone hanno cominciato a darmi fiducia, a raccontarmi il loro vissuto e io, via via che passavano i giorni, strappavo le pagine su cui stavo costruendo il libro e le ricostruivo da capo. Ero diventato responsabile della loro voce, delle loro vite».

Superficie è dedicato a diverse persone: «A Babeth, Yann, Corinne, Jamy e Stéphane. Distrutti. Ricostruiti. Vivi».

«È stato il coraggio di Babeth a costruire il mio romanzo», rivela Olivier Norek a proposito di Superficie, ispirato dunque a una storia vera, vissuta in prima persona dallo scrittore. «Noémie è in realtà Babeth, una mia amica, una collega caduta in una trappola durante un’operazione di polizia». La sua squadra era stata chiamata di notte a intervenire: il messaggio recapitato alla stazione di polizia alle tre del mattino parlava di una donna incinta aggredita in una banlieue particolarmente difficile attorno a Parigi. «Era troppo facile per essere vero», racconta Norek. «I poliziotti erano consapevoli che si trattasse di una trappola, ma c’era pur sempre una possibilità che l’allarme fosse reale. Appena arrivarono sul posto, i quattro agenti si ritrovarono accerchiati da una trentina di delinquenti armati di bastoni di ferro e mazze da baseball. Babeth fu colpita alla testa, raccontò poi di aver sentito il fragore delle ossa del cranio che si rompevano. È entrata in coma, ha subito sei operazioni chirurgiche al volto. Chiunque sarebbe caduto in depressione ma non lei. Dopo sei mesi è rientrata in servizio. Quando mi sono messo a scrivere Superficie, ho cercato di entrare nella sua testa, di capire le sue emozioni: per me, è questo il mestiere dello scrittore», spiega Norek, che ha iniziato a scrivere quasi per caso, per fatalità. «Io sono un non violento e il mestiere che facevo, il poliziotto, è violento. Sapevo che prima o poi avrei smesso, immaginavo che un giorno mi sarei dedicato alla musica», ci dice Norek, che suona il pianoforte e il sax, «e invece un giorno mi arrivò via email la notizia di un concorso letterario di racconti. Non diedi importanza alla cosa e la cancellai; quando arrivò la terza mail, decisi di partecipare, sotto pseudonimo: arrivai secondo, e quando mi presentai per ritirare il premio, la giuria si aspettava di vedere una ragazza di vent’anni, invece ero un poliziotto che non aveva dormito per sei notti alle prese con un’indagine. Avevano apprezzato la sensibilità che traspariva dalle pagine della novella che avevo scritto. Così decisi di scrivere il mio primo romanzo».

La scrittura, per Norek, «è un dono. Non so esattamente da dove mi provenga, so per certo però che io sono come una spugna, percepisco e ricevo dagli altri. Se sei un poliziotto, l’empatia è il tuo nemico. Hai a che fare con crimini di ogni genere, l’indagine può essere rovinata se lasci che l’empatia, anziché la razionalità, abbia il sopravvento. Ci fu un caso che mi fece riflettere: ero di turno, erano le 4 del mattino e ci chiamarono per la morte inspiegabile di una dodicenne. Quando arrivammo nell’appartamento, la ragazzina era sdraiata a letto, accanto i genitori in lacrime. Io mi misi a consolare il padre finché un collega non si avvicina a me e mi dice che il corpo è troppo freddo, non è possibile che sia appena successo, probabilmente la vittima è morta già da due giorni. L’aveva uccisa il padre con un’overdose di sonniferi, io avevo ceduto all’empatia e avevo consolato l’assassino. Diventare uno scrittore per me ha significato poter dare libero sfogo alla mia empatia, poter vivere i sentimenti degli altri».

Tra due mondi

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Noémie è coraggiosa quanto Babeth, come lei vuole riprendere subito a lavorare ma incontra un ostacolo: per il direttore della polizia giudiziaria di Parigi la capitana è diventata uno scomodo ingombro. Il suo volto sfregiato, quella faccia da carne cruda, nuoce al morale dei colleghi, come fosse un memento mori, un manifesto indigesto e inquietante sui rischi e sulla pericolosità del mestiere di poliziotto. Così Noémie viene spedita da Parigi – «dove il tasso di criminalità è davvero elevato», ci ricorda il poliziotto Norek – nella campagna occitana, ad Avalone, un paesino dell’Aveyron, dove Noémie viene incaricata di valutare la possibile dismissione del commissariato locale, troppo costoso e troppo poco utile in quel luogo tranquillo.

Intanto, continuano le sedute via web con lo psichiatra. «Le nostre espressioni facciali non sono per noi di alcuna utilità personale, rappresentano invece le informazioni che mostriamo a chi vuole comprenderci», le dice Melchior. «Il viso è una delle rare parti del corpo che lei non può vedere senza uno specchio, ma è soprattutto la prima cosa che viene guardata. È interamente per l’altro. È anche la sola parte che usa i cinque sensi. Il viso è totalmente aperto al mondo. E lei vorrebbe lasciarlo in penombra?»

 

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Ma Noémie continua a lasciarlo in penombra, si muove, cammina, si siede, sale in auto coi colleghi sempre vigile, sempre attenta a mostrare agli altri l’unico profilo di sé che riesce a sopportare. E intanto morde il freno, è abituata alla velocità, ha bisogno dell’azione per combattere la paura e la rabbia, da quando è uscita dall’ospedale si fa chiamare “No”, sfugge con aggressività ai tentativi dei nuovi colleghi di accoglierla tra loro e l’unico essere vivente con cui stringe amicizia è un cane di razza imprecisa.

«La lingua gli pendeva di lato in modo ridicolo per via di una mascella visibilmente deviata che non sapeva più trattenerla e l’occhio sinistro era gonfio e lacrimava di continuo. Sbilanciata da una zampa in cattivo stato, camminava ondeggiando e zoppicando».

Dopo l’aggressione nella banlieue e il rientro in servizio, Babeth venne assegnata a una squadra cinofila, «perché i cani non giudicano», ci racconta Olivier. «Babeth si sentiva sicura: si faceva schermo prima con il cane, che stava sempre davanti a lei, e poi col giubbotto antiproiettile. All’inizio fu difficile con lei, quasi non mi rivolgeva la parola. Poi successe che una notte eravamo in turno insieme. Non c’erano indagini in corso, era un momento di tranquillità alla centrale. Vedo in un angolo la busta delle crocchette del cane e ne prendo una, sono curioso di capire che gusto abbiano. “Non do nulla al mio cane che io non lo abbia già assaggiato”, mi dice lei. Dopodiché mi tende il guinzaglio e insieme usciamo a pattugliare la zona. Lo facemmo per cinque notti di seguito. Per me è stata un’esperienza formidabile, Babeth, 165 centimetri d’altezza e 50 chili di donna che, col proprio cane, non aveva più paura di niente e di nessuno».

Superficie è un titolo «architettonico», spiega in conclusione Olivier Norek: «È come avere addosso un giubbotto antiproiettile: sotto c’è dell’altro». È la superficie sopra cui si fermano le relazioni in città grandi come Parigi, e la profondità delle relazioni che si vivono nei paesini dimenticati come Avalone, dove tutti si conoscono e dove i segreti, che in molti conoscono, sono stati sepolti da anni. Finché le acque del lago artificiale, sotto cui riposano i resti dell’antico villaggio nell’apparente tranquillità della campagna, non restituiranno alla superficie un fusto di plastica con dentro un cadavere.

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