“L’ultimo dei Gucci”, una storia di soldi, avidità e lusso sfrenati

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Redazione BookToBook
21 Dic 2021

«Per rancore e per denaro», confermò l’ultima giuria. «È stata stizza, la mia. Soltanto stizza», dice oggi ai giornali Patrizia Reggiani. Certe saghe familiari, l’imperio e il collasso di grandi dinastie chissà se è destino che portino il segno, le cicatrici, la condanna delle migliori e delle peggiori passioni umane, quelle che muovono all’ascesa sociale e al successo o alle invenzioni geniali, quelle che invece poi sfociano in invidie e lotte familiari intestine, battaglie legali senza esclusione di colpi, cupidigia e gelosie, un’inesauribile e inappagabile brama di potere e di ricchezza fino all’apoteosi delittuosa.

In questi giorni arriva nelle sale italiane uno dei film indubbiamente più attesi dell’anno, House of Gucci, colossale produzione cinematografica con Ridley Scott alla regia, Lady Gaga nel ruolo di Patrizia Reggiani e Adam Driver nel ruolo di Maurizio Gucci, affiancati da star del calibro di Al Pacino, Jeremy Irons, Salma Hayek e Jared Leto. Girata in parte in Italia, la pellicola ripercorre, con tutti gli effetti speciali del caso e della finzione, la storia della dinastia dei Gucci, culminata con la morte di Maurizio Gucci, l’ultimo degli eredi della maison di moda ucciso a colpi di pistola sotto l’androne del suo ufficio in via Palestro a Milano un lunedì mattina, il 27 marzo del 1995. Sono passati ventisei anni ma ancora se ne parla, se ne discute, ci si interroga su quale sia la molla che fa scattare il grilletto, follia o bramosia, odio o vendetta, vittima o carnefice. La famiglia al vetriolo fa ancora parlare di sé, complice il fatto che la vicenda legale dentro e fuori le aule di tribunale ha avuto strascichi, anche clamorosi, fino all’anno scorso. Quanti vorranno capire fin dove si spinge la finzione e dove sta la verità ripercorsa attraverso le suggestioni del grande schermo, potranno (prima di andare al cinema o anche dopo) trovare riscontri fattuali e interessanti in uno dei testi più accurati pubblicati finora, che Bur Rizzoli ha riportato in libreria in un’edizione aggiornata con gli ultimi retroscena del caso. Il dettagliatissimo libro-inchiesta L’ultimo dei Gucci. Una storia di soldi, avidità e lusso sfrenati è frutto del lavoro portato avanti per anni da due giornalisti, Angelo Pergolini, che ci ha lasciati l’ottobre scorso, e Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama” che in un pezzo uscito poche settimane fa ha ricordato l’amico e collega.

L’ultimo dei Gucci

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L’ascesa e le origini della famiglia Gucci

Pergolini e Tortorella hanno ricostruito con minuzia di particolari, di dati, di eventi e vicissitudini la storia della famiglia emblema della moda e dello stile italiani nel mondo, partendo dall’inizio, dalla passione vitale di un ragazzino di appena sedici anni che partì come aiuto fuochista su un vapore che dal porto di Livorno faceva rotta verso la Gran Bretagna. Si chiamava Guccio, si mise a fare il lavapiatti nei sotterranei dell’hotel Savoy, il più elegante albergo della Londra vittoriana. Era il 1898. Non sapeva una parola d’inglese, non si perse d’animo, curioso e intraprendente iniziò a osservare le valigie in cuoco al seguito dei ricchi viaggiatori.

«Per il giovane toscano era un mondo del tutto nuovo, fatto di gioielli e carrozze, autisti e lacché, dove l’eleganza suprema consisteva nell’ostentazione della normalità. I viaggiatori americani, francesi, tedeschi o inglesi portavano con loro in albergo lussuosi guardaroba e da come si comportavano e vestivano, pareva che non si fossero mossi da casa loro.
Quella comodità era concessa dai colossali set di valigie che avevano al seguito. Sotto agli occhi spalancati di Guccio ogni giorno passavano bauli, borse e cappelliere, tutti fatti con cuoio pregiato, pelli conciate e colorate alla perfezione. Il ragazzo scrutava i monogrammi impressi a fuoco, le cinghie di chiusura, le fodere di raso. Ma era il cuoio che più lo attirava. Profumava di cere protettive, del grasso animale usato per l’impermeabilizzazione. Quegli odori gli ricordavano le botteghe degli artigiani fiorentini, che tante volte aveva visto al lavoro nella sua città.»

Da una ditta di pelletterie al marchio GG

Guccio tornò a Firenze nel 1901, si sposò, mise al mondo cinque figli – Grimalda, Enzo (che morì ad appena 9 anni d’età), Aldo, Vasco e Rodolfo. Combatté sul fronte della Grande Guerra, dopo il 1918 fece carriera in una ditta di pelletterie dove imparò tutto quel che c’era da sapere sulle tecniche di lavorazione del cuoio e nel 1922 realizzò la prima delle sue ambizioni, mettersi in proprio con un negozietto acquistato indebitandosi in via del Parione, dove cominciò a smerciare alcuni bauli e valigie importati dall’Inghilterra. L’anno dopo si mise a produrle da sé, ad affiancarlo il terzogenito Aldo, l’unico che pareva avere la stoffa e la passione dell’imprenditore. La ruota della fortuna e della sfortuna girava mossa dai venti minacciosi dell’epoca, i debitori non pagavano, i creditori non facevano più credito e nel 1935 le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni all’Italia fascista bloccarono tutte le importazioni, incluse le pelli per produrre borse e valigie. Guccio e Aldo cambiarono rotta:

«L’azienda si assicurò ogni possibile approvvigionamento di materia prima italiana e di pari passo la quota di pelle impiegata per borse e bauli venne ridotta al minimo. Il risultato fu un successo strepitoso, sia per le vendite, sia per la notorietà della ditta. Nacquero infatti in quegli anni le prime borse fatte in pelle e vimini, o quelle prodotte con pelle e tela, che da allora avrebbero dato alla Gucci un’impronta riconoscibile in tutto il mondo.»

Quel marchio composto da due G, le iniziali di Guccio Gucci, con la seconda G rovesciata, creato da un fabbro fiorentino agli inizi degli anni Trenta del secolo scorso, divenne definitivo sinonimo di lusso. «Nel 1950 al marchio tradizionale era stato affiancato un nuovo tocco di eleganza, due strisce colorate, una rossa e l’altra verde, che presto sarebbero diventate il distintivo internazionale dell’azienda». Da Grace Kelly a Elisabeth Taylor, da Anna Magnani a Sophia Loren, da Katherine Hepburn a Jacqueline Kennedy fino alla Regina Elisabetta, tutte le più grandi star indossavano foulard e borsette Gucci e fu a metà anni Sessanta che nacque il mocassino con la fibbia dorata a forma di staffa: «A Washington il salone del Senato adibito al passeggio dei parlamentari e ai loro incontri con lobbysti e questuanti – l’equivalente del Transatlantico italiano – venne battezzato con il nome di Gucci Gulch, cioè valle dei Gucci».

Il delitto di Maurizio Gucci, storia di una cronaca nera griffata

L’ultimo dei Gucci segue passo a passo la crescita dell’azienda decennio per decennio, parallelamente ai rapporti di forza che vengono a delinearsi in famiglia con la crescita dei figli e dei nipoti. Pian piano, Pergolini e Tortorella delineano i profili, la personalità, gli amori, le ambizioni, i segreti, le manovre di ognuno dei possibili eredi di casa Gucci, che si muovono tra la Milano da bere degli anni Ottanta e i newyorkesi ambienti esclusivi dell’alta società d’oltreoceano, lungo una passerella sopra cui sfilano, oltre ai Gucci, i personaggi dello showbiz e della potente finanza internazionale.

«La notizia dell’omicidio aveva fatto il giro del mondo in meno di un’ora: Maurizio Gucci shot dead in Milan, avevano battuto immediatamente le telescriventi della Reuters. La Cnn mandò in onda le crude immagini del cadavere di Maurizio su una barella coperta da uno spesso lenzuolo bianco, sorretta da due infermieri e scortata da un nugolo di agenti. La televisione americana non risparmiò il dolore di Alessandra, la figlia maggiore della vittima, né le lacrime disperate della sua compagna Paola.
Il 28 marzo tutti i giornali riportarono la notizia dell’omicidio di via Palestro in prima pagina. Il “Financial Times” di Londra gli dedicò una lunga colonna, e il “Times” titolò Former Head of Gucci Dinasty is shot dead in Milan (“L’ex capo della Gucci ucciso a colpi di pistola a Milano”). “The Independent” ironizzò su una richiesta fatta dal magistrato ai giornalisti: «Lasciateci lavorare in pace». Scrisse: «È come se avesse chiesto agli spettatori del serial televisivo Dallas di non domandarsi chi aveva sparato a J.R.»

Alla fine di tutto, dunque, nel 1997, c’è l’arresto di Patrizia Reggiani, ex moglie di Maurizio Gucci, nipote di Guccio e figlio di Rodolfo, accusata di essere stata la mandante dell’assassinio dell’ex marito, che poco prima di morire aveva chiesto alla sua nuova, amatissima compagna, Paola Franchi, di sposarlo. All’alba di venerdì 31 gennaio, nello stesso momento in cui Patrizia veniva prelevata dalla residenza di corso Venezia a Milano dagli agenti della Criminalpol, a Somma Vesuviana una squadra di agenti in borghese arrestava l’amica cartomante Pina Auriemma, accusata di aver organizzato l’assassinio, mentre a Milano finivano in manette Ivano Savioni, il portiere d’albergo nipote dell’Auriemma, come lei ritenuto colpevole di avere fatto da mediatore tra la mandante Patrizia e gli esecutori materiali dell’omicidio; Benedetto Ceraulo, che secondo i giudici aveva sparato i quattro colpi letali, siciliano di Caltanissetta che abitava ad Arcore in una casa di ringhiera nello stesso stabile della pizzeria di Orazio Cicala, accusato di aver fatto da autista a Ceraulo al momento dell’omicidio e l’unico che non fu arrestato in quel momento perché era già in carcere a Monza per spaccio di droga.

Patrizia fu condannata a 26 anni di reclusione, «ma in nessuno degli oltre seimila giorni che ha trascorso dietro le sbarre è mai stata una detenuta come le altre», scrivono Tortorella e Pergolini.

«Nel vecchio carcere milanese, che Patrizia aveva ribattezzato “Victor’s Residence”, un parrucchiere à la page passava a farle visita una volta a settimana. Qualche mese dopo la condanna definitiva del febbraio 2001, le era stato perfino concesso di tenere con sé in cella un furetto bianco, che aveva deciso di chiamare Bambi. L’animaletto le piaceva moltissimo, perché assomigliava molto all’ermellino immortalato tra le braccia della dama nella famosa tavola di Leonardo da Vinci, ma dopo poco tempo aveva fatto una brutta fine: era stato schiacciato, dicono per errore, da una compagna di cella.»

Patrizia ha scontato 17 anni di carcere a San Vittore e nell’ottobre del 2016 è tornata libera, nella grande casa di corso Venezia.

«Più o meno nello stesso periodo sono cominciati gli screzi con le due figlie, che pure a partire dall’arresto del gennaio 1997 s’erano tanto battute per dimostrare la sua innocenza. Presto gli screzi sono divenuti litigi, quindi una guerra legale senza esclusione di colpi: una nuova e vera faida di famiglia, così simile alle aspre contese che hanno costellato tutta la storia dei Gucci.
Al centro della contesa, ovviamente, i soldi lasciati da Maurizio, l’ultimo dei Gucci alla guida dell’impresa di famiglia. Non s’è mai saputo con esattezza quanto Alessandra e Allegra abbiano ereditato dal padre ucciso, ma nessuno in famiglia aveva potuto dimenticare che la vendita della grande casa di moda, da sola, aveva fruttato a suo tempo circa 170 miliardi di lire.»

L’ultima clamorosa svolta del caso Gucci risale ad appena un anno fa, come spiegano Tortorella e Pergolini nelle ultime pagine – e chissà se siano davvero le ultime – dell’edizione aggiornata de L’ultimo dei Gucci:

«Difese dall’avvocato milanese Fabio Franchini, non per nulla lo stesso civilista cui Gucci vent’anni prima aveva affidato la delicata pratica del proprio divorzio, Alessandra e Allegra erano più che certe in cuor loro che nessun tribunale avrebbe mai deciso di concedere alla madre una parte dell’eredità del padre, visto che la Cassazione aveva certificato fosse stato ucciso su suo mandato. Ma la giustizia italiana non finisce mai di sorprendere. E così, alla fine di un processo relativamente veloce, nel novembre 2020 la terza sezione civile della Corte di cassazione ha condannato Alessandra e Allegra a pagare alla madre almeno 25 milioni di euro di arretrati, e a versarle un milione l’anno per il resto della sua vita.»

 

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