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La lettera scarlatta. Note a margine

La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne conserva per il lettore moderno la carica suggestiva del capolavoro, dell’opera irripetibile che ha contribuito in maniera determinante a segnare la maturità artistica della Nuova Inghilterra e, in senso più vasto, della letteratura americana.


La lettera scarlatta. Nota del traduttore Flavio Santi


Un vecchio e saggio poeta americano del XX secolo, Ezra Pound, (lo sguardo penetrante e la barba appuntita che non avrebbero sfigurato nei racconti di Hawthorne), diceva la cosa più evidente e difficile sulla traduzione: bisogna tradurre pensando a come avrebbe scritto l’autore se avesse conosciuto la nostra lingua – in questo caso l’italiano.
Questa traccia (paradossale, certo, e praticamente impossibile, ma al tempo stesso provocatoria e stimolante) mi ha guidato nella traduzione: oggi, Hawthorne come avrebbe scritto in italiano la storia di Hester, Dimmesdale, della piccola Pearl e della comunità di puritani che ruota intorno a loro?
Ecco, in ordine sparso, un elenco di suggestioni che mi hanno aiutato nel tentativo di rispondere all’ardua domanda: il film di Roland Joffé con Demi Moore (ma esiste anche un vecchio film di Wim Wenders niente male); le atmosfere autunnali di Halloween; le immagini dell’oceano Atlantico a Cape Cod; alcune canzoni struggenti come All my love dei Led Zeppelin, Lily of the Valley dei Queen, Corner stone di Bob Marley; i film in costume di Tim Burton (Il mistero di Sleepy Hollow fa addirittura capolino a un certo punto, naturalmente il racconto ispiratore)…


La lettera scarlatta. Introduzione di Attilio Brilli


La maturità de La lettera scarlatta si esprime a prima vista in due caratteristiche essenziali: nell’originale tessitura di voci e di echi della tradizione letteraria britannica e, in pari tempo, in una economia della rappresentazione che si traduce in una schematica, allusiva arcaicità. Pur soffocata sotto una spessa coltre esegetica, sensibile in particolar modo al tema dominante del peccato di adulterio commesso nel cerchio inflessibile d’una colonia puritana, La lettera scarlatta non cessa per questo d’imporsi per il mordente d’una forma singolare che enfatizza la finzione romanzesca e la rende disponibile a contesti culturali diversi.

Si è dimenticato infatti troppo spesso di considerare il tempo mitico, il tempo delle verità assolute e fondanti, come la trascendenza che giustifica la narrazione di Hawthorne, che dà un senso all’atto stesso del narrare. Ma in un’epoca come la nostra, in cui il problema essenziale del narrare è appunto quello di reintegrare le trascendenze entrate in crisi, di ricostruire le motivazioni stesse dell’atto narrativo, l’opera di Hawthorne si ripropone proprio in quanto enigmatica, ambigua arcaicità. Quando si dice, e non certo a torto, che il romanzo della seduzione è in realtà un romanzo senza seduzione (affine in questo al «romanzo senza idillio» dei Promessi Sposi), si tralascia di ricordare che l’atto innominato appartiene all’antefatto e che vi appartiene in quanto ripetizione emblematica dell’eterna parabola della “caduta”. Per il lettore che viene calato, non senza ironia, in medias res, il destino di Hester Prynne incarna una valenza doppiamente esemplare e il suo «viaggio di pellegrina» non può che rinviare alla trascendenza mitica dell’Eden perduto, alla letteratura puritana di Milton e di Bunyan.

Non è un caso che La lettera scarlatta appartenga alla tradizione del romance piuttosto che a quella del novel (su questa scelta programmatica si sofferma con acutezza lo stesso Hawthorne nella prefazione alla Casa dei sette timpani), e quindi a un genere fantastico che elude ogni concretezza quotidiana e con essa i vincoli di una contingenza troppo marcata, escludendo sofisticati effetti di reale. Spostando la storia dell’infrazione di Hester ai tempi dell’insediamento della colonia puritana di Boston, Hawthorne compie un’operazione che emula a suo modo quella del romanzo storico del “vecchio mondo”. Una simile scelta di campo gli permette altresì di rappresentare un contesto culturale ancora disponibile alla penetrazione di forze immateriali e metafisiche, di leggerlo per così dire attraverso la griglia fantastica del romanzo gotico. Questa apparente negazione della realtà ha suggerito più d’una volta l’accostamento di Hawthorne a Kafka in nome di un analogo rifiuto di imitare la prosaica concretezza della vita.

Ad essa oppongono entrambi la buia odissea dell’uomo in un mondo estraneo nelle forme di un’epica negativa che, nell’atto stesso di porre l’eroe al centro del mondo, ne fa anche l’oggetto di un controllo imperscrutabile. Non meno pertinenti le similarità dei due scrittori nei confronti della religione. Essi furono infatti, per usare le parole di Lionel Trilling, «scettici entrambi, ma disposti a lasciar catturare l’immaginazione dalla fede cui erano legati per tradizione familiare, e da queste credenze non confessate trarre ispirazione per i loro miti affascinanti, per la rappresentazione di forze sovrumane in grado di controllare il destino dell’uomo». Tuttavia per Hawthorne il mondo resta un’entità irriducibile che impegna comunque la coscienza individuale; ed è inconcepibile una deroga dalla legge che non si configuri anche come senso soggettivo di colpa, bisogno di remissione. Gli è estranea, per citare ancora Trilling, quella kafkiana «intransigenza d’immaginazione necessaria per concepire una vita spirituale priva di connessioni con la moralità». Ciò non toglie che, una volta scontata l’ambientazione culturale d’una scena, i personaggi di Hawthorne appaiono incalzati dal rimorso allucinato di un crimine sempre più nel vago, indefinito, remoto, un crimine a cui solo la presenza di Pearl, «geroglifico vivente» della trasgressione d’un tempo, impedisce di confondersi con il delitto inconsapevole e misterioso del Processo di Kafka. Se da un lato non si può parlare di «vita spirituale priva di connessioni con la moralità» di Hawthorne, dall’altro non si può non riconoscere l’ambiguità del confine fra colpa e innocenza.

La modernità kafkiana dell’uomo coinvolto in una buia odissea trae senza dubbio alimento in Hawthorne dalla narrazione schematica, costruita per simmetrie, degli episodi salienti che tacitamente rinviano a una potenza demiurgica e indiscutibile. Ad essa coopera la spiccata caratterizzazione dei personaggi, confitti in un destino che sembra determinato ab aeterno più che dal movente immediato e passionale della remissione o della vendetta.

Chi non ha riletto in Chillingworth la figura quasi stereotipa del negromante di ascendenza elisabettiana? E chi non ha colto con incredulità la notizia che quest’uomo ha avuto un passato che travalica il buio della foresta, dalla quale emerge, come per incanto, un passato che l’avrebbe visto gelido sposo di Hester? Ugualmente palese balza l’artificio di una narrazione che deve esibire il reprobo con una scansione rituale e spettacolare a un tempo. Come è stato notato più volte (la prima indicazione in tal senso venne da Trollope), il palco della gogna costituisce il climax della narrazione in tre momenti fatidici, scanditi con geometrica regolarità: ad apertura di libro, quando Hester viene esposta al ludibrio del pubblico; a metà romanzo, allorché è Dimmesdale a salire sul palco in una sorta di denuncia simbolica; e infine in chiusura del libro con la presenza di Hester, di Pearl e di Dimmesdale sul palco che sovrasta la piazza del mercato. Tale simmetria d’impianto si coniuga con una forma narrativa tradizionale interamente gestita dal narratore onnisciente. Questi apre il romanzo con una scena ad alto effetto teatrale, opponendo la luce implacabile della piazza al buio della prigione, l’esposizione impietosa al recesso cautelativo, il singolo alla moltitudine ostile. Ma nonostante la supposta coralità della scena, sembra che tutto avvenga nel teatro allucinato della memoria. Dopo aver letto la lunga introduzione intitolata La dogana, che fra l’altro ha la funzione di accreditare il racconto, la colpa e il castigo acquisiscono indubbiamente una determinazione storica; eppure quello che colpisce è il loro tradursi in forme a loro modo epiche e dure, ancora ignare di quell’ammorbidimento delle pene, di quella discrezione del far soffrire che sarà il portato di una tecnologia illuministica della punizione. La “lettera scarlatta” appartiene, almeno per un verso, allo statuto simbolico di un mondo in cui la presa dell’ordine costituito sul corpo del reo è ancora totale, e l’obbrobriosa marchiatura ha la funzione esemplare di tener lontani dal delitto.

La realtà storica di Boston nel XVII secolo, avamposto della colonizzazione puritana, rende conto dei tratti rituali che ammantano la ferrea tutela della legge e la difesa ossessiva dei tabù inviolabili. La Boston evocata da Hawthorne, emergente dal fondo opaco di una memoria collettiva ma anche da studi appassionati, è l’epitome della Nuova Inghilterra: lembo di terra stretto fra un mare senza ritorno e la foresta impenetrabile, o se si preferisce il prodotto di una cultura orgogliosa del proprio intransigente riscatto di qua dall’oceano, ma ancora incapace di dominare le insidie di una natura barbarica e istintuale.

L’altro per antonomasia, colui che penetra il segreto di Dimmesdale con una sagacia ignota alla legge, assomma questa doppia negatività del vecchio mondo e della barbarie indigena. E simbolicamente doppia è la sua comparsa: il villain accanto all’indiano. C’è anche uno spazio altro nel libro, ove avvengono incontri misteriosi, ove natura e cultura s’intrecciano in un connubio demoniaco: la foresta dalle presenze umbratili, dai succhi malefici, la foresta che incombe sulla fragile struttura culturale. È nella foresta che avviene l’incontro di Hester con Dimmesdale, l’unico incontro affettivo degli amanti di un tempo, e, nota ancor più sottile e indiretta (colta a volo dal Matthiessen), nella foresta Hester avverte l’intolleranza dispotica e l’impoverimento della cultura a cui appartiene.

Non sorprende allora se l’epica di questa fondazione culturale, in cui l’identificazione della religione con la legge è quasi assoluta e inevitabilmente severa, ricorre a un rituale attraverso il quale più che l’amministrazione della giustizia si manifesta il potere in sé, il potere assoluto che accentua l’enfasi della restaurazione dopo che la deroga ai suoi dettami lo ha momentaneamente eclissato. L’epopea dei corpi scritti, marchiati, esibiti è dunque omologa a una società che si vuole opprimeva e che pure deriva i propri apparati punitivi dalle monarchie del vecchio mondo, dalla concezione della forza della legge come estrinsecazione diretta della forza del sovrano.

 

Nel romanzo opera naturalmente anche il logorio di una pena diversa, di una punizione interiorizzata, in stretta connessione con il carattere dei tre personaggi: l’odio venefico del medico la cui incapacità di comprensione lo lega indissolubilmente alla propria vittima; la nevrosi di Dimmesdale il cui contatto con la realtà avviene solo attraverso la sofferenza; il senso di colpa di Hester che si estroflette nell’oggetto d’amore, in quella figlia strega che imperversa come «scarlattina». Ma su questo mondo più sottile e segreto predomina l’epica negativa incentrata sul fastigio della repressione, sul fuoco della lettera scarlatta.

Un’epica negativa appunto, perché Hawthorne non coltivò mai la convinzione che l’America fosse un “nuovo” mondo.

A differenza dei suoi contemporanei, egli avvertì nella storia della Nuova Inghilterra, più che le potenzialità di sviluppo, il paradigma di una vera e propria degenerazione sia morale che fisica, il tetro pellegrinaggio senza ritorno intrapreso dal rigorismo intollerante dei puritani. Di questa odissea Hester e Dimmesdale sono due facce diverse e complementari: ai tremori nevrotici del secondo, al suo deperimento progressivo, si contrappone la solida pietà religiosa della prima, il suo rigoglio fisico nel tacito paragone del vecchio con il nuovo mondo. La stessa regressione infantile di Dimmesdale, quel suo sintomatico ritorno a Hester come alla madre, rientra nel paradigma di questa involuzione della colonia. In uno degli scritti composti poco prima della Lettera scarlatta, quasi a prefazione di essa, Hawthorne annota a proposito della vita delle colonie puritane: «Una tale vita era sinistra per l’intelletto, e sinistra per il cuore; specialmente quando una generazione avesse trasmesso il suo fanatismo, e la contraffazione del proprio ardore religioso, alla seguente… I figli e i nipoti dei primi coloni furono una razza di anime più basse e meschine dei loro progenitori». Poi, in conclusione dello scritto, aggiunge una sorta di ironico Thanksgiving: «Ringraziamo Dio per aver avuto tali antenati; e che ogni successiva generazione Lo ringrazi, non meno ferventemente, per essere d’un passo più lontana da costoro nella marcia del tempo».

In un’ottica come questa, che lascia ben pochi margini di dubbio sulle intenzioni dello scrittore, l’epica delle colonie puritane nasconde, sotto il fastigio delle forme repressive, delle lettere di fuoco e di sangue, il fanatismo nevrotico dei pastori come Dimmesdale, dei governatori come Billingham, degli storici progenitori alla Cotton Mather. Un’epica negativa, dunque, resa ancor più problematica e ironica dall’ambiguo statuto del concetto di colpa. Per il lettore moderno tale fanatismo, tale intransigenza della Legge, umana e divina, e quindi totalizzante, acquista i connotati di una persecuzione allucinante, capace di infinite estensioni di significato. La sua intransigenza non esclude il dubbio terribile, kafkiano, di un controllo ossessivo sul destino dell’uomo, sulla sua colpa e sulla sua innocenza, entrambe sospette. Un controllo che, in ultima analisi, non può che fondarsi su una crudele gratuità.