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Dal premio nobel Kenzaburo Ōe a Kitō Aya: la letteratura giapponese e il difficile rapporto con la malattia

Un litro di lacrime si inserisce in quel filone di letteratura giapponese contemporanea fatta di libri che affrontano la malattia o, come in questo caso, la morte.

Che detto così sembrerebbe non avere niente di eccezionale e si potrebbe derubricare Un litro di lacrime a semplice (per quanto doloroso) diario di malattia di un’adolescente.

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Eppure, il particolare vissuto editoriale di questo libro misto a quello che fino a non troppo tempo fa in Giappone era considerato tabù, ossia parlare apertamente della malattia, hanno reso Un litro di lacrime un vero e proprio cult in patria che, a distanza di trent’anni, viene tradotto oggi per la prima volta in italiano da Caterina Zolea.

Il Giappone e la malattia: una questione personale

È bene precisare che la morte, nella letteratura giapponese, non è mai stata un tabù, ma la malattia sì.

Permeata nella dottrina shinto e buddhista, la morte è sempre stata raccontata nelle letteratura classica quanto in quella contemporanea; la malattia invece, come tante altre questioni, in Giappone attiene alla sfera del personale, del privato e al pari delle emozioni, positive o negative che siano, non c’è motivo per sbandierarla in pubblico.

Immagina quindi l’immenso stupore che provò un lettore medio giapponese quando, nel 1964, si trovò tra le mani l’opera che trent’anni dopo valse il premio Nobel per la letteratura a Kenzaburo Ōe, Un’esperienza personale in cui, subito e a scanso di equivoci, viene chiarito il tema: un padre e il suo rapporto con il neonato primogenito, un figlio idrocefalico.

Non si ferma qui però Ōe, che chiama il suo protagonista, Tori-bird (uccello-uccello), perché come un uccello è sempre in fuga da tutto e da tutti.

I tabù della cultura giapponese cadono sotto la penna di Ōe: non solo la malattia e il racconto della malattia (con tanto di diagnosi sbagliata da parte dei medici che sostengono che il bambino morirà a breve oppure, nella migliore elle ipotesi, che potrà avere solo una vita vegetativa) ma anche un uomo che non riesce a fare il proprio dovere, che fugge davanti alle proprie responsabilità, che non riesce a prendersi cura di quella creatura, di sua moglie, della sua famiglia e, di conseguenza, di quella grande azienda-casa di cui fa parte: il Giappone.

Un’esperienza personale – oltre a essere una puntuale metafora del Giappone post-bellico – si spalanca a una pluralità di livelli di lettura.

La parabola del piccolo uomo alle prese con sé stesso e con il proprio dramma famigliare diventa una spietata analisi della condizione umana nel secolo di Hiroshima: profondamente segnata da incubi e tragedie collettivi, pronta a gridare l’assurdità della sofferenza, e tuttavia in grado di ritrovare un nocciolo insopprimibile di speranza.

A sancire il tutto, il discorso dell’autore alla cerimonia di premiazione del Nobel che, prendendo esempio dal suo predecessore Kawabata, parafrasò e chiamò Japan, the ambiguous and myself giocando sul doppio senso che la frase ha in giapponese mettendo però in luce l’abissale distanza tra sé e il grande autore “classico” che l’ha preceduto.

Se il mondo di Kawabata era legato a concetti di bellezza e di espressione tradizionali, il mondo di Ōe è molto più moderno, contraddittorio, più severo nei confronti di una società, come quella giapponese, che fatica a fare un riesame critico della sua storia più recente.

Se si ha avuto la possibilità di leggere Un litro di lacrime, è proprio grazie a Kenzaburo Ōe.

Quello di Kitō Aya infatti è un diario di memorie scritto tra 19 luglio del 1962 e il 23 maggio del 1988 e pubblicato in seguito alla sua morte.

A differenza dell’esperienza personale di Ōe, Aya racconta in prima persona la sua storia vera: una ragazza che scopre di avere un male incurabile e vive tutto il periodo della sua adolescenza con questa malattia degenerativa chiamata atassia spinocerebellare che colpisce l’apparato nervoso centrale impedendo via via tutti i movimenti autonomi del corpo.

In patria Un litro di lacrime ha avuto un successo editoriale clamoroso, arrivando a 18 milioni di copie vendute; nel 2005, ne è stato tratto un dorama in 11 puntate  e uno special TV.

Inedito per trent’anni in Europa, il diario di Aya arriva oggi a noi con la stessa, rara forza di allora.