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Emilie Pine ha qualcosa da dire a tutte le donne, e non solo

Come si raccontano le donne nel 2021?

Ci vuole coraggio a svelare tutto di sé non all’amica, non al compagno, non allo psicologo ma al mondo intero, scrivendo un libro che rinuncia al velo della finzione letteraria per scegliere il lessico dell’autenticità, della verità interiore, per lasciarsi andare senza freni e senza fronzoli alla memoria emotiva. In gergo questi libri si chiamano “memoir”, vocabolo che a pronunciarlo suona dolce e suadente ma che trasporta spesso significati schietti e taglienti, duri onesti e fieri com’è il caso di Appunti per me stessa, autoritratto di Emilie Pine, uscito da pochi giorni in Italia per Rizzoli.

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A leggerlo ben si capisce, fin dalle prime pagine, perché è diventato un cult in Gran Bretagna, aggiudicandosi il prestigioso Irish Book Award. Irlandese è l’autrice, docente di drammaturgia allo University College di Dublino, al suo esordio come scrittrice.

Tuttavia Pine non ha imboccato strade facili per strizzare l’occhio ai suoi primi lettori. Tutt’altro. Indagando se stessa con crudezza e mettendosi a nudo, se n’è proprio infischiata del giudizio altrui, ha messo a tacere ogni pudore e la palpabile sincerità con cui ha scritto i sei capitoli-confessione l’ha ripagata con un successo internazionale di critica e di pubblico.

«Queste pagine coprono un periodo di otto anni circa. Contengono molti episodi ed emozioni che non ho mai raccontato a nessuno e nemmeno confessato a me stessa. L’esperienza di metterli su carta è stata molto dolorosa. Che non abbia evitato il dolore (o non abbia potuto evitarlo) – decidendo di non scrivere questa storia – lo si deve a una ragione molto semplice: l’impulso a scriverla non è soltanto una cosa pericolosa, e che mette paura, e fa vergognare: è anche una necessità.»

Chi sono le donne raccontate da Emilie Pine?

Appunti per me stessa appariranno necessari a molte donne, poiché è pressoché indubbio che gran parte delle lettrici vi ritroveranno qualche analogia con la propria storia di dolore e di rinascita o, più semplicemente, con la propria comune quotidianità dell’essere femmina.

 

«Le donne conoscono molto bene i rituali che accompagnano la valutazione del proprio corpo. Guardiamo le donne che ci circondano, guardiamo noi stesse e facciamo i confronti. Siamo simili? Superiori? Inferiori? Questo rituale prevede una sorellanza crudele, considerato che quasi nessuna donna vi sfugge. È come vivere con una cheerleader disfattista, che in sottofondo continua a canticchiare che il nostro corpo non è desiderabile, non è accettabile, non è normale.»

 

Alzi la mano chi non si è mai trovata a disagio col proprio corpo, chi non si è mai giudicata brutta o poco affascinante, chi non si è mai sentita inadeguata, insicura a scuola e sul lavoro, imbarazzata di fronte a una platea, in lacrime dopo un test di gravidanza negativo, chi non si è sentita vittima delle aspettative sociali di maternità o della discriminazione sessista, sottovalutata in quanto femmina, mal pagata rispetto a un collega maschio.

Appunti per me stessa non è soltanto un memoir. È una testimonianza pulsante, una voce libera che riporta, dirompente, al centro del dibattito pubblico la questione femminile, ribadendone le ragioni contro quanti, più o meno spudoratamente, pensano che il femminismo sia ormai soltanto roba da donne frustrate e lamentose, esagerate, insoddisfatte, incazzate con gli uomini, “uterine”.

 

«Ho perso il conto del numero di volte che uomini più vecchi e più giovani di me mi hanno detto che sembro giovane. Lo dicono per farmi un complimento, ma non lo è. Dalle donne si pretende che si sentano lusingate, davanti a una frase del genere, perché per una donna l’aspetto è la cosa più importante, e la gioventù la condizione migliore. Ma rassicurandomi sul mio aspetto giovanile, o dicendomi che non capisco perché sono troppo ingenua, o chiedendomi se sono una studentessa quando è chiaro che sono una docente di ruolo, questi uomini mi derubano di più di un decennio di esperienze e competenze professionali. Il cosiddetto complimento è, in realtà, un declassamento istantaneo.»

 

Non c’è compiacenza in quel che scrive di sé Emilie Pine, che infrange tabù da cui ammette apertamente di essersi lasciata condizionare.

 

«Da adulta mi è ancora difficile dire che ho il ciclo. Anche all’interno di alcune conversazioni femministe, certi aspetti del sangue mestruale possono essere tabù. Oggi gira uno slogan che trovo ridicolo: una donna può fare le stesse cose di un uomo, per quanto sanguinando. E mentre rido, mi chiedo: e se non riuscissi? Gli ormoni mi travolgono, e poi mi piantano in asso. Certe volte sto così male da piegarmi in due per il dolore. Certe volte perfino l’idea di restare in piedi per un certo periodo di tempo mi fa venire le vertigini. In quei momenti non mi sento un’eroina femminista, ho solo voglia di tornare a casa e mettermi a letto. Ma in un mondo in cui le donne sono ancora eccessivamente identificate in base ai loro corpi, in cui devono continuamente dimostrare le loro capacità intellettuali, qual è la soglia per rivendicare questo dolore?»

 

Leandra Medine Cohen, fashion blogger tra le più celebri al mondo, ha postato su Instagram una foto in cui si è fatta ritrarre di spalle mentre indossa una gonna bianca macchiata di sangue mestruale, accompagnata dal commento «Unsarcastically, I love being a woman».

Si dirà: 150mila like (per lo più di donne) facili da incassare con provocazioni a buon mercato. Forse. Forse, invece, è un’altra prova del fatto che libri come quello della Pine interpretano per davvero un malessere condiviso ma sottaciuto da molte donne, il bisogno di ribellarsi a una raffigurazione delle donne e delle madri che andrebbe ripensata e condivisa a livello sociale e politico, anche e soprattutto per il bene delle generazioni future.

Emilie Pine dipinge un autoritratto di tutte le donne

A proposito dei nostri figli, altro capitolo a rimpolpare le ragioni della questione femminile è quello dedicato all’esperienza lunga e dolorosa della maternità sperata, che Pine descrive con minuzia di dettagli corporali, di esami medici, di giorni fertili segnati sul calendario:

 

«Mi commuovo quando alcune donne postano lunghissimi messaggi sulla loro infertilità, sulle speranze che lentamente svaniscono, su come si puniscono per avere fallito. Mi commuovo quando leggo i commenti ai post, nei quali le donne cercano di sostenersi, di incoraggiarsi, di spiegare che non esistono colpe.»

 

Altrettanto toccanti sono le pagine in cui la scrittrice narra dell’anoressia sofferta durante l’adolescenza, filone attualissimo se vogliamo affrontare sul serio le ferite che lacerano non soltanto le donne, ma pure gli uomini, i rapporti familiari e la società intera.

Come ha detto Ambra Angiolini a Michela Marzano in un’intervista per “Repubblica” a proposito del suo memoir Infame, in cui svela la sua storia di disturbi alimentari,

 

«smettiamola con tutte le stupidaggini che si dicono sul corpo, sul peso, sul body positive e sulle modelle. Anoressia e bulimia non sono capricci, non c’entrano nulla con l’estetica.»

 

Così racconta Emilie Pine dei suoi disturbi alimentari:

«Le mie nuove amiche notarono la mia magrezza. La notavano tutti. Gli altri genitori e gli insegnanti ne parlavano. Chi la vedeva come un problema mi chiamava “stecchino”, un soprannome che mi entusiasmava. In genere per me usavano dei termini sfumati che suggerivano che la magrezza fosse una “bella cosa”, per esempio “sottile” o “snella”. A scuola ero brava, avevo un atteggiamento sicuro di me (cioè ero molto sfacciata) e raccontavo storie divertenti. Ma essere magra, con i gomiti appuntiti e le costole che sembravano la tastiera di un pianoforte, era l’unica dote che per me contava.»

 

Emilie Pine non opera nessuna censura, non omette nessun passaggio scabroso della sua sofferta giovinezza, come quando racconta del sesso sfrontato e casuale con uomini incuranti delle conseguenze (fino allo stupro):

«Credevo di essere merce di scarto, e la separazione tra corpo e mente che ero riuscita a operare, iniziata anni prima, quando avevo smesso di mangiare normalmente, durante quegli incontri si completava. E facevano male. Fisicamente. Mentalmente. Emotivamente. Facevano male ogni volta. Tutte le volte.»

 

L’altra faccia del rapporto con gli uomini si completa, negli appunti di Emilie, con il racconto del travagliato rapporto con il padre, figura di scrittore affascinante e ambivalente segnata da quattro decenni di alcolismo alle spalle, con cui tutta la famiglia ha dovuto fare i conti.

 

«È molto difficile voler bene a qualcuno che soffre di una dipendenza. Lo è nel concreto, perché bisogna rimediare ai suoi disastri e gestire gli aspetti della vita che non sa gestire da solo, ma lo è anche in senso più ampio. È come andare a sbattere contro un muro, non soltanto con la testa ma con tutta te stessa. Ti indurisce il cuore. Intrappolata tra ultimatum infiniti (smettila di bere) e accettazione totale (ti voglio bene comunque), la persona che ama chi soffre di una dipendenza esaurisce e rinnova il proprio amore tutti i giorni. Una volta mi imponevo di respingerlo, di voltargli le spalle, ma poi non riuscivo mai. Passavo dal prendermi cura dell’uomo colpito da quell’orribile malattia al tentare di proteggermi dalla catastrofe emotiva di avere per padre un alcolizzato. Per anni mi sono rifiutata di essere comprensiva finché non ho capito che l’unica persona a cui facevo del male ero io».

 

Appunti per me stessa di Emilie Pine è un altro di quei libri “importanti”, come abbiamo scritto al riguardo di Ashley Audrain e del suo romanzo d’esordio La spinta, che squarcia il velo sull’ipocrisia sociale che ingabbia la maternità in un ideale romantico e i figlioletti in angeli caduti dal cielo, mentre in realtà possono non esserlo affatto, come dimostrano la protagonista Blythe e sua figlia Violet.

«Quando mi sono resa conto che volevo insegnare all’università, ho sperato di essere una di quelle professoresse che lasciano un segno nelle vite dei loro studenti», racconta Emilie Pine nelle pagine conclusive di Appunti per me stessa.

«Ho cercato di concretizzare in parte queste ambizioni rendendo la mia classe uno spazio sicuro (ed equo) dove tutti i miei studenti possono correre dei rischi. Certe volte però ho l’impressione che il rischio più grande che riescano a concepire sia quello di affermare qualcosa a voce alta. So che hanno paura di dire la cosa sbagliata e farsi ridere dietro. Ma io voglio che parlino nonostante questa paura, perché temo che se non esprimono le loro idee in classe, forse non esprimeranno nemmeno altre cose. Cose sulle quali non si può tacere. Se non riescono a parlare in classe, come faranno se vengono molestati o discriminati o feriti?».