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Il delitto di via Veneto raccontato da Giancarlo De Cataldo

Suona quasi come una ninnananna Dolce vita, Dolce morte, l’armonioso titolo della prima delle Novelle Nere scritta da Giancarlo De Cataldo, che inaugura la nuova collana Rizzoli di romanzi brevi liberamente ispirati ai più intricati cold case italiani.

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Una ninnananna dolceamara a far da sottofondo a una storia vera, a cullare la vita e la morte di una giovanissima donna, vittima forse ingenua ma senz’altro innocente di quel mondo «tanto scintillante quanto cinico», come ci avverte subito De Cataldo in questa nostra intervista, che fu la Roma degli anni Sessanta, la Roma della dolce vita attorno cui si snoda l’oscura vicenda di un assassinio alla luce del sole, ricostruita dalla lente investigativa di uno degli scrittori più amati dal pubblico italiano nonché magistrato di lungo corso da pochi mesi in pensione.

Il caso è quello di Christa Wanninger, 23enne modella tedesca trovata uccisa a coltellate sul pianerottolo di un palazzo romano in via Emilia, nella centralissima Roma, il 2 maggio del 1963. I giornali dell’epoca ci sguazzarono, le acque erano quelle torbide e chiacchierate dell’ambiente, perennemente sotto i riflettori, dei belli ricchi e famosi, della moda e del business, delle auto di lusso e dei ristoranti esclusivi, della città eterna protagonista dei sogni di tante giovani ragazze italiane e straniere tanto audaci e tanto attirate dal luccichio di mille opportunità, dallo splendore di un sogno da set cinematografico, o soltanto dalla visione di una vita migliore. Il caso si chiuse con una sentenza di condanna nei confronti di un pittore, Guido Perri, che si era sempre dichiarato innocente e che, in via definitiva, fu giudicato incapace di intendere e volere.

«Certi delitti segnano un’epoca, possono essere commessi soltanto in un dato momento storico», suggerisce Giancarlo De Cataldo. «Penso che sarebbe stato difficile immaginare un delitto della stagione della dolce vita più tipico di questo: una giovane donna che ambisce ad avere successo nella vita ma che finisce nella rete di un mondo tanto scintillante quanto cinico e cialtronesco qual era quello romano negli anni Sessanta, e che muore per moventi accertati da una condanna definitiva che però, nonostante la verità giudiziaria, ha lasciato molte ombre. Fu un delitto che avvenne in uno scenario ben delineato, un perimetro fisico, il centro di Roma tra via Veneto, via Emilia, via del Tritone, la Barcaccia, divenuto una sorta di epicentro mitologico, grazie anche alle tante narrazioni del tempo, da Fellini in poi. Mi colpì molto questa storia, di cui lessi molto già in passato prima di immaginare i personaggi di Dolce vita, dolce morte. Ho sempre provato una certa empatia per questa figuretta di ragazza che si ritrovò a vivere i suoi ultimi giorni in una società in apparenza accogliente ma, forse, crudele nella sostanza. Sono piccole ossessioni che ognuno si porta appresso, un po’ come James Ellroy con la Dalia nera. Mentre scrivevo questa novella mi sono infiltrato nel palazzo dove Christa è stata uccisa, sono salito su fino al pianerottolo, volevo vedere quel luogo così vicino a me, nella città in cui vivo da tanti anni».

In Dolce vita, dolce morte Giancarlo De Cataldo ne ha drammatizzato i contorni, ha cambiato i nomi, Christa diventa Greta e il protagonista è un giornalista, Marcello Montecchi, trent’anni, brillante firma di un prestigioso quotidiano romano il cui volto, nell’immaginario delle lettrici e dei lettori, non potrà che assumere le sembianze di un altro Marcello, quello vero, Marcello Mastroianni, indimenticabile protagonista insieme ad Anita Ekberg di uno dei capolavori cinematografici di tutti i tempi, La dolce vita di Federico Fellini, appunto, cui è dedicato l’esergo della novella nera narrata da De Cataldo:

«A me invece Roma piace moltissimo: una specie di giungla, tiepida, tranquilla, dove ci si può nascondere bene».

Addentrandoci in Dolce vita, dolce morte, quando alla redazione della cronaca nera arriva la notizia dell’omicidio, il direttore del giornale chiede a Marcello di seguire il caso senza sapere che lui, Greta, l’ha conosciuta davvero, «durante incontri fugaci al sapore di whisky e sigarette»…

«Da te ci aspettiamo una cosa tipo: queste ragazze che vengono a Roma a cercare fortuna nel mondo dorato del cinema ma poi restano ai margini e fanno l’incontro sbagliato, un po’ de letteratura all’uso tuo, eh, Marcè…»

Dolce vita, dolce morte – Leggi l’intervista a Giancarlo De Cataldo

Dottor De Cataldo, perché a noi lettrici e lettori piacciono tanto i cold case, i delitti più o meno irrisolti?

«Credo che sia perché certi casi, sia risolti sia irrisolti, entrano più in risonanza con una parte profonda di noi, esercitano su di noi un interesse che ci conduce a porci domande universali, ci sfidano a interpretarli per capire un pezzo della nostra realtà, per capire perché è andata in quel modo. Per quanto riguarda poi il delitto irrisolto, o che si vuole ritenere irrisolto, c’è un aspetto ulteriore di sfida: tutti noi ci sentiamo un po’ investigatori, ci siamo fatti una nostra idea al riguardo e vogliamo andarcene a dormire con una verità in mano, non ci rassegniamo all’idea che talvolta alcuni misteri siano destinati a restare tali. Nel caso di Greta, la domanda di fondo che risuona tra le pagine è perché la strada del successo che illumina e abbacina tanti debba poi trasformarsi per taluni nella strada della morte, e questa è una domanda che tocca una verità profonda».

I cold case agitano le acque, smuovono in noi la ricerca della verità, della giustizia, «che sono istanze nobili. Esiste però anche un’altra declinazione, piuttosto ignobile», aggiunge De Cataldo, mostrandoci il lato oscuro della faccenda, «che ha a che fare con la morbosità e che accompagna spesso questo tipo di delitti, quando per esempio le vittime sono giovani donne, come in Dolce vita, dolce morte, o quando sono accompagnati da dettagli particolarmente efferati, quando cioè subentra una sorta di attenzione morbosa mista a un sospiro di sollievo, a un senso di scampato pericolo, perché non è toccato a noi».

Attorno al caso dell’assassinio di Greta i giornali fanno a gara alla ricerca dello scoop, Marcello partecipa a una riunione di redazione in cui i colleghi commentano l’iniziativa di un giornale rivale, che lancia un gioco fra i suoi lettori: “Chi ha ucciso Greta Müller?”.

«Un’autentica azione di sciacallaggio sulla pelle di una povera fanciulla. Lo chiamavano referendum, ma era un concorso a premi bello e buono, un “lascia o raddoppia” con cadavere che faceva accapponare la pelle. Di questo passo, dove si sarebbe andati a finire?»

è l’interrogativo che balza dirompente ai giorni nostri, interrogandoci sulla perenne attualità di un business mediatico senza scrupoli e senza pietà, a sfamare la morbosità di molti:

«… se si considerava che in un solo pomeriggio trecento lettori si erano espressi… e che nei giorni successivi ci si attendeva una valanga di nuove lettere… tenuto conto della tiratura… insomma, quei bastardi avevano avuto un’idea geniale.»

Leggendo però Dolce vita, dolce morte, sembra trasparire tra le righe anche e soprattutto un profondo rispetto da parte del protagonista Marcello (e da parte dello scrittore) nei confronti della vittima. È così?

Senza dubbio. Ora che sono in pensione posso dire che quando facevo il magistrato non ho mai avuto la tentazione di negare il rispetto o di cedere a una qualsiasi forma di aggressività postuma nei confronti di qualsiasi imputato o condannato, anche il peggiore. I tribunali in piazza mi hanno sempre fatto orrore. In questo caso, cosa si può dire sia della vittima reale, Christa, sia della mia Greta? Che è una ragazza abbagliata dalle luci della ribalta? E quante ce ne sono! Che è un po’ leggera, che insegue sogni romantici cercando il principe azzurro, magari nell’uomo sbagliato? E quante ce ne sono! Perché dovremmo giudicare male una ragazza che vuole vivere la sua vita, anche in modo spregiudicato, rompendo rispetto ai tempi? Siamo nel 1963, alle porte stanno per arrivare la rivoluzione sessuale, il Sessantotto: Greta è figlia della propria epoca».

Come ha condotto la sua “indagine” prima di mettersi a scrivere il romanzo?

Naturalmente sono partito dagli atti processuali, che avevo già letto in passato, insieme a diversi libri scritti negli anni intorno a questo caso. Soprattutto, ho letto molti giornali dell’epoca: questo caso è particolarmente interessante perché non ci fu un solo filone investigativo affrontato nel corso delle indagini e dei vari processi che non venisse riportato dai giornalisti in presa diretta. Se torniamo indietro a quel maggio del 1963, scopriamo che il “Messaggero” del giorno dopo l’assassinio riportava già tutte le informazioni e le ipotesi che alimentarono buona parte delle indagini: dietro all’uccisione di Greta si nascondevano i servizi segreti? La ragazza si era legata in qualche modo a un circolo di persone influenti, a industriali facoltosi e potenti che potevano avere un interesse a zittirla per sempre? Tutto questo viene riportato dai cronisti il giorno dopo il delitto e nella settimana successiva. È un fatto impressionante, ancor più se pensiamo a tutti i dubbi che ci poniamo noi oggi al riguardo: il rispetto della privacy, le tutele sui nomi degli imputati, il segreto istruttorio, le conferenze stampa… Ebbene, all’epoca invece i giornalisti bivaccano fuori dell’ufficio della squadra mobile, proprio come in un romanzo del commissario Maigret; di minuto in minuto qualche poliziotto usciva dall’ufficio e informava i cronisti appostati di quello che stava accadendo dentro, facendo nomi e cognomi. Da questo punto di vista, la lettura dei giornali del tempo è assolutamente sorprendente.

In effetti, Dolce vita, dolce morte è anche un romanzo d’atmosfere, proprio come nel più classico del noir…

In buona parte, l’effetto è dovuto anche alle mie memorie personali. Ero ancora un bambino, avrò avuto più o meno otto anni quando fui affascinato da Roma per la prima volta. L’MG Roadster 1600 color rosso vivo su cui sfreccia Marcello per le strade romane esiste davvero, fu l’auto con cui un mio cugino romano – aveva poco più di vent’anni, lavorava già in Rai e guadagnava bene – mi fece fare quelle prime passeggiate per Roma, quando ci venivo in vacanza coi miei genitori. Ho un ricordo vivissimo di questa magnifica auto decappottabile e di quelle serate, di questo mondo di luci, quando passai per la prima volta sotto l’arco di Costantino, dentro piazza del Popolo, lungo la Millecurve. Quell’aria, quell’atmosfera l’ho annusata, l’ho vista coi miei occhi prima ancora di vederla al cinema. Conosco molto bene le pietre di questa città eterna.

Con Dolce vita, dolce morte e con la novità della collana Rizzoli delle Novelle Nere ispirata a veri cold case, il noir si arricchisce di una chiara e interessante dimensione storica. 

Io sono un appassionato di storia. Se dovessi liquidare la faccenda con una battuta, direi che un’indagine di sessant’anni fa è molto più divertente e stimolante di un’indagine condotta oggi con tutta la strumentazione scientifica, i flussi informatici, le videocamere di sorveglianza di cui disponiamo al nostro tempo. Ma, andando più in profondità, in realtà la storia m’affascina perché racconta di come eravamo ieri, la storia conosce bene i nostri antenati, ci aiuta non soltanto a capire il presente e a interpretare il futuro ma anche a tracciare un percorso, delle traiettorie, a comprendere come e dove gli esseri umani si ripetono e dove invece scatta il cambiamento. Prendiamo a esempio il personaggio di Marcello: è un tipico carattere italiano, di quelli che ricorrono nel tempo; Greta è la giovane agnellina che viene sbranata dai lupi della città e che ha un richiamo universale. Momo Sangiacomo, “il cacciatore di scandali” è sì un personaggio inventato, ma italiano pure lui fino in fondo. È il tipico traffichino disgraziato e viscido, sorcio ma poveraccio, uno di quegli uomini che durante la Seconda guerra mondiale avrebbe venduto informazioni contemporaneamente alle brigate nere e ai partigiani, è il Kasper Gutman interpretato da Sydney Greenstreet ne Il mistero del falco, o Peter Lorre che interpreta l’unto avventuriero di Casablanca. Tutti i personaggi di Dolce vita, dolce morte affondano le radici nei classici del noir; d’altronde, noi scrittori facciamo letteratura, non reportage.

Tuttavia Dolce vita, dolce morte è puntellata di episodi reali, di omaggi e di riferimenti al cinema, alla letteratura, al teatro, all’arte, quasi in un gioco, in una sfida per chi legge a scoprire cosa è vero e cosa è falso, quali personaggi, oltre a Marcello, sono esistiti realmente, come Marianne, tra le figure femminili più affascinanti del romanzo.

Marianne è una donna magnifica ed è una citazione esplicita e un omaggio vero non soltanto a Nico, la musa di Andy Warhol e dei Velvet Underground che compare anche ne La dolce vita di Fellini, ma anche alla Nico protagonista di quel bellissimo film che è Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli. Altri passaggi del romanzo sono veri, come quando narro di Carmelo Bene e delle rappresentazioni teatrali di Cristo ’63 che tenne prima in una cantina a Trastevere, poi in una villa, ed entrambe le volte successe un gran casino. Così come qualcuno mi raccontò di Moravia e Pasolini che si divertivano a fare scherzi ai giovani aspiranti scrittori: nella scena che descrivo nel romanzo appaiono cattivissimi, erano dei veri geni di raffinata crudeltà.

Dottor De Cataldo, lei ha vissuto per molti anni una doppia vita, diviso tra la carriera di magistrato e la carriera di scrittore.  Cosa le hanno dato l’una e l’altra?

Ho cominciato a scrivere molto presto, a otto anni. Agli altri bambini piaceva disegnare, alcuni collezionavano le figurine; io ero scarso a pallone ma leggevo molti libri, mi piaceva mettere parole in fila su un foglio bianco. Qualsiasi mestiere avessi fatto, avrei scritto comunque; poi ho avuto fortuna, perché i miei libri sono stati pubblicati, e in un certo senso sono stato condannato a scrivere.

La carriera di magistrato mi ha regalato l’incomparabile opportunità di vivere in prima persona il tribunale. Grandissimi scrittori come Balzac o Dostoevskij frequentavano con un’ansia quasi spasmodica le aule di tribunale, volevano esaminare coi propri occhi l’essere umano assoggettato alla giustizia in una condizione di stress, che ne rivela l’anima. Per me è stato un privilegio: nella mia esperienza di magistrato, non ho rubato tanto le storie quanto i volti, le espressioni, i comportamenti che si avvicendano dietro le sbarre. Ora che sono in pensione, mi sento in qualche modo liberato, non perché possa dire delle cose che prima non potessi dire, ma perché le cose che dico ora non potranno più essere interpretate in chiave maligna. Resta però un’ultima grande verità: come scrittore, se quello che scrivo va male o se offende qualcuno, vorrà dire che ho sbagliato libro e che nascerà magari una polemica letteraria ma nulla più. Una sentenza sbagliata invece può fare molto più male, nella realtà vera degli esseri umani in carne e ossa.