La lingua di Fantozzi secondo Stefano Bartezzaghi

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Redazione BookToBook
06 Lug 2017

Fantozzi è stato qualcosa di più di un fenomeno culturale di massa.

Nel concorrere a rendere immortale il personaggio larga parte è stata affidata al linguaggio. Proprio così, la lingua di Fantozzi.

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Lo sapeva bene il suo creatore Paolo Villaggio, nonostante fosse solito ribadire che «Scrivere non sarà mai il mio mestiere, è una cosa fatta per gioco». Ma è proprio grazie alla sua penna brillante mista alle disavventure del tragico Fantozzi è riuscito a creare un mondo il cui perimetro è stato definito da parole. Parole oramai entrate a far parte del lessico comune. Un linguaggio, una vera e propria lingua di Fantozzi.

A raccontarlo ci pensa Stefano Bartezzaghi in un saggio di semiotica fantozziana che fa da introduzione alla raccolta Fantozzi, Rag. Ugo.


La lingua di Fantozzi in “Così Fantozzi”, di Stefano Bartezzaghi


Le parole come fantozziano si chiamano «deonomastici».

Da un nome proprio deriva un nome comune (come quando si dice cristianesimo o «è una babele»), oppure un verbo (come maramaldeggiare), oppure – e dev’essere il caso più comune – un aggettivo. Milanese, torinista, marxiano, machiavellico e boccaccesco sono tutti aggettivi deonomastici, derivanti da nomi propri. Uno può dire che Gli indifferenti è un romanzo moraviano o che Ecce Bombo è un film morettiano e questo è un uso assai tranquillo dei deonomastici: attribuiscono paternità, evitano di usare la preposizione «di», nulla di che. In altri casi, invece, il deonomastico non è affatto banale: non esistono solo film felliniani: esiste anche qualcosa come «il felliniano»; non esistono solo libri kafkiani: esiste anche qualcosa come «il kafkiano». Qui si può capire quale sia la reale funzione benefica di Fantozzi.

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Avere a che fare con Fantozzi è molto piacevole ma soprattutto utile perché implica poter distogliere lo sguardo dal lucore abbagliante e spaventoso che promana da un’entità maligna di cui Fantozzi è contemporaneamente nunzio e maschera: il fantozziano.

Il mondo si è ispirato a Fantozzi: i poveracci come lui hanno continuato a fare quello che facevano e a cui Fantozzi è ispirato (consolati dalla constatazione di essere in ogni caso meno sfigati di lui); i ricchi si sono incredibilmente ispirati alle macchiette dei capi, dei padroni, degli aristocratici e degli esseri celestiali che costituiscono il gerarchizzato empireo fantozziano. In qualche azienda, c’è da scommetterci, ci sarà davvero la statua della madre di un Megadirettore intenta a fare la calza.

Che il mondo in cui viviamo sia largamente esemplato sul fantozziano lo si è visto con le intercettazioni, quegli inverosimili dialoghi che da anni rendono testimonianza su quello che accade dietro le quinte del potere. (Da notare che tra i vari uffici in cui Fantozzi presta la sua opera per la Megaditta c’è anche «l’ufficio Intercettazioni Telefoniche Varie».) Eccone una, presa non dai libri di Fantozzi ma dalle cronache giudiziarie dell’anno 2010: «Capo».

«Eccomi».

«Allora, domenica prossima alle otto».

«Di quello che parlavamo prima?»

«Sì, sì, cosa megagalattica».

Megagalattico è un aggettivo regolarmente presente sui dizionari italiani, ma totalmente inventato; allude all’astronomia ma non ha nulla a che farci e deriva dal Megadirettore Galattico, quello con la poltrona in pelle umana in ufficio, che compare nei libri di Fantozzi.

L’intercettazione della «cosa megagalattica» propiziava l’incontro fra un potente italiano e alcune ragazze, incontro organizzato in un centro benessere dalla responsabile brasiliana dell’«Eventistica Danzante», una specializzazione che ricorda appunto certe cariche e istituzioni fantozziane come «il Gran Maestro dell’Ufficio Raccomandazioni e Promozioni» o «il Consiglio dei Dieci Assenti». L’italiano di successo è uno che viene intercettato mentre ride a letto di un terremoto che, mettendo in ginocchio un’intera regione, gli farà arrivare moltissimi quattrini; è uno che deve pagare vacanze e yacht e altre segrete «cose megagalattiche» a chi gli procura appalti pubblici. E vorrà dire che la realtà ha un po’ esagerato nell’ispirarsi alla fantasia.


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